
Ci sono momenti in cui parlare con un figlio sembra come parlare al vento. Le parole si perdono, le spiegazioni sembrano non arrivare mai, e ogni tentativo di comunicare finisce in un muro di silenzi o risposte brusche. Ma dietro quel muro, spesso, non c’è disinteresse c’è confusione, bisogno di autonomia, o semplicemente un modo diverso di sentire.
Parlare con un figlio che non ascolta non significa solo trovare le parole giuste, ma imparare a creare uno spazio in cui lui voglia ascoltare. Un figlio non si apre davanti a chi impone, ma davanti a chi lo accoglie. La prima strategia, allora, non è parlare di più, ma parlare meglio con meno rimproveri e più curiosità.
C’è poi il potere del silenzio. Spesso i genitori temono il silenzio come una sconfitta, ma può essere invece un linguaggio sottile che lascia spazio all’altro. Quando un figlio è arrabbiato o chiuso, forzarlo a parlare è inutile. Mostrarsi presenti senza invadere, lasciandogli tempo, è un modo per dirgli “Ci sono, quando vuoi”. E quella presenza silenziosa, più delle parole, costruisce fiducia.
Anche l’esempio è un linguaggio. I figli imparano più da ciò che vedono che da ciò che sentono dire. Se un genitore parla con calma, sa chiedere scusa, ascolta con attenzione, il figlio capirà che il dialogo non è una battaglia ma un incontro. A volte serve anche ammettere che non si ha sempre ragione, perché un figlio non si fida di chi vuole vincere, ma di chi vuole capirlo.
Parlare con un figlio che non ascolta, in fondo, è come imparare una nuova lingua quella del rispetto reciproco. Non si tratta di cambiare l’altro, ma di creare un ritmo in cui due persone possano finalmente riconoscersi. E quando quel momento arriva un sorriso, una confidenza inattesa si scopre che non era lui a non ascoltare. Forse era solo il momento giusto che doveva arrivare.


