
Quando Lía nacque, il cielo sopra Leida era grigio come il piombo.Era il 1934 un anno in cui l’Europa respirava che nessuno ancora sapeva chiamare guerra. I canali tagliavano la città come rughe su un volto troppo serio, e le biciclette sfrecciavano lungo le strade bagnate. In quella terra piatta e straniera, venne alla luce una bambina minuta, dagli occhi profondi e dal respiro corto.
Sua madre, Marieke, una donna olandese dal viso chiaro e lo sguardo determinato, la strinse forte, come a proteggerla da un mondo che già sembrava respingerla. Ma Lía era diversa il suo piccolo cranio, gonfio e fragile, raccontava di una malattia sconosciuta ai più. I medici parlarono di idrocefalo. Lei non pianse molto, ma nei suoi occhi c’era qualcosa che parlava oltre le parole.
Il padre di Lía, un uomo di origini lontane, era arrivato in Europa con la passione del poeta e l’eco delle sue terre sudamericane nelle vene. Scriveva poesie infuocate, declamava giustizia e libertà, e parlava dell’amore come di un fiore sacro. Ma l’amore per sua figlia non fiorì mai. Quando la vide, appena nata, si ritrasse. Disse poco, ma fu abbastanza. «Una bambina malata… non sarà mai parte della mia vita.»
Se ne andò, lasciando solo versi e silenzi. Lía non venne mai citata nelle sue memorie, né in un verso, né in una lettera pubblica. Nascose la sua esistenza come si nasconde una vergogna sotto il tappeto di un salotto buono.
Marieke, invece, rimase. Dovette scegliere: piegarsi al dolore o farsi madre ogni giorno, con tutta la forza possibile. Lavorava, curava, cantava. Portava Lía a vedere i cigni nei canali, le parlava piano, le insegnava le parole anche se la bambina non le ripeteva mai. Lía sorrideva quando sentiva il suono dell’acqua o il profumo del pane caldo. Era silenziosa, ma attenta. Viveva in modo diverso, ma viveva.
Il tempo passava e il mondo si incendiava. La guerra si avvicinava a passi pesanti. Lía cresceva, seppure con difficoltà. I bambini la evitavano. Le persone abbassavano gli occhi. In una società che venerava la perfezione, Lía era un corpo estraneo. Marieke però non si arrese. Teneva un diario, dove annotava ogni piccolo progresso, ogni gesto della figlia. Scriveva: “Oggi ha sorriso alla pioggia.” Come se quei sorrisi potessero bilanciare l’assenza di un padre che aveva preferito la fama all’amore.
Lía morì giovane, prima di compiere nove anni. Il cuore cedette una notte d’inverno. La madre la trovò addormentata, con le mani intrecciate come se pregasse. Non c’erano medaglie, né titoli, né onori. Solo un piccolo funerale, e una lapide con il suo nome inciso in silenzio.
Il padre, ormai celebre, non venne. Continuò a scrivere poesie sul dolore del mondo, ignorando per sempre quello che aveva lasciato dietro di sé.
La storia di Lía non è fatta di grandi imprese o citazioni sui libri. È fatta di carezze invisibili, di battaglie silenziose, di amore senza spettatori. È una storia che non cerca vendetta, ma memoria. Perché anche le vite dimenticate meritano un nome, un posto, una voce.
E oggi, quel nome Lía risuona come un sussurro che scavalca il tempo: “Esisto anch’io. Anche se non mi hai vista.”


