venerdì 25 luglio 2025

Il coraggio di tuffarsi









Ci sono attimi nella vita in cui tutto si ferma. Il tempo rallenta, il fiato si blocca in gola, e il cuore sembra sospeso in un battito mancato. 

Sono quei momenti in cui non c’è più spazio per il pensiero, per la paura o per il dubbio e non puoi permetterti di guardare da lontano, sperando che qualcun altro intervenga, perché quando vedi un bambino sparire tra le onde, la consapevolezza ti colpisce come uno schiaffo devi correre.

Non ci sono alternative, nè  scuse e  lì che scopri che il coraggio non è assenza di paura, ma capacità di agire nonostante la paura e che l’amore, quello vero, è sempre un gesto di movimento verso l’altro, verso il pericolo, verso la vita.


Quel pomeriggio il mare era inquieto, agitato come un bambino capriccioso. Le onde si rincorrevano con forza, inghiottivano palloni, secchielli, e risucchiavano impronte lasciate sulla sabbia. Le famiglie erano sparse lungo la riva, chi steso al sole, chi intento a costruire castelli di sabbia, chi immerso in chiacchiere leggere da domenica d’estate.


Io ero lì, seduta sotto l’ombrellone, con un libro aperto e lo sguardo che vagava tra le pagine e l’orizzonte. Non so perché, ma un senso di inquietudine mi spingeva ad alzare gli occhi più spesso del solito. E poi è successo.


Un grido. Non forte, non drammatico. Un grido piccolo, spezzato, quasi strozzato, poi un altro, più acuto. Mi sono voltata di scatto.


A una decina di metri dalla riva, tra le onde, ho visto un bambino. Avrà avuto sei o sette anni. Lo avevo notato poco prima, giocava con una palla rossa che adesso galleggiava poco più in là, ma lui, ora, annaspava. 


Le braccia agitavano l’acqua in modo scomposto, il corpo sembrava scomparire e riemergere, mentre la testa affiorava solo a tratti. Non c’era nessuno vicino. Nessun adulto che si muovesse, solo occhi spalancati e bocche aperte.


Così ho capito... In certi momenti non puoi aspettare. Non puoi chiederti se sai nuotare abbastanza bene, se le onde sono troppo forti, se qualcuno dovrebbe farlo al posto tuo. In certi momenti devi correre.


Senza pensarci ho lasciato il libro, la borsa, le scarpe, mi sono lanciata tra le onde. Il mare mi ha accolto con violenza, cercando di spingermi indietro, ma  io andavo avanti. Il bambino spariva sempre più spesso sotto la superficie. 


Ho nuotato con tutta la forza che avevo. Il sale mi bruciava gli occhi, il cuore mi batteva nelle orecchie, le gambe sembravano pesanti come rocce, poi l’ho raggiunto.


Lui non urlava più, era stanco, impaurito, rigido come un corpo che si arrende. L’ho afferrato da sotto le braccia, tenendo la sua testa fuori dall’acqua, e ho iniziato a tornare. 


Non so da dove ho preso l’energia, so solo che, passo dopo passo, bracciata dopo bracciata, siamo usciti dal mare.


Quando i suoi piedi hanno toccato la sabbia, ha cominciato a piangere. Un pianto che sembrava sciogliere tutta la paura, tutta la tensione. Una donna è corsa verso di noi era sua madre, piangeva anche lei, gridava il suo nome, lo stringeva come se volesse fondersi con lui.


Io mi sono accasciata lì, senza dire una parola. Avevo freddo, e tremavo, ma non era colpa del mare. Era l’adrenalina, il silenzio dopo l’urlo, la coscienza che tutto avrebbe potuto finire in modo diverso.


Da quel giorno ho imparato che il coraggio non ha a che fare con l’essere pronti. Il coraggio è non aspettare. È agire quando nessuno lo fa. È tuffarsi, anche quando non sei sicura di farcela, perché a volte, nel tempo di un respiro, puoi diventare il confine sottile tra la vita e il silenzio.

giovedì 24 luglio 2025

Il maglione grigio





Era una di quelle giornate storte pioggia battente, semafori eterni e una notizia ricevuta male. Marta camminava a testa bassa, il cappuccio tirato su, il cuore stretto come il nodo che da giorni sentiva in gola.

Non parlava con nessuno da ore. Anche il cellulare era silenzioso nessun messaggio, nessuna chiamata. Ma in fondo, non avrebbe saputo nemmeno cosa dire.


Si sedette sotto la pensilina del tram, le mani fredde nelle tasche, e un respiro che tremava più della pioggia. Aveva voglia di piangere, ma non usciva una lacrima. Solo stanchezza.


Fu allora che la vide arrivare.

Giulia. Il suo maglione grigio largo e stropicciato, la borsa sempre troppo piena e quello sguardo che ti legge dentro senza chiedere permesso.


Non disse nulla. Si sedette accanto a lei.

Solo un silenzio buono, morbido, pieno.


Dopo qualche minuto, Giulia tirò fuori un pacchetto di biscotti quelli al cacao che Marta amava da bambina e glielo porse. Marta sorrise appena, accennando un grazie con gli occhi.

Poi, con naturalezza, Giulia le mise una mano sulla spalla. E basta. Nessun discorso, nessuna soluzione. Solo presenza. Solo esserci.


E fu in quell’istante che Marta lo capì ci sono amicizie che non si chiamano amicizie. Si chiamano casa.

E Giulia era la sua.


Perché a volte l’anima riconosce chi ci appartiene, ancora prima che il cuore abbia il tempo di rendersene conto.


Si  parla di legami rari, quelli che sfuggono alle etichette. Non serve chiamarli amici del cuore o migliori amici, confidenti perché sono qualcosa di più profondo sono rifugi. Sono persone che non cercano di capire, perché già comprendono. Sono quelle che appaiono nei momenti in cui non hai la forza di chiedere, ma loro sanno. E ci sono.


E quando accade, non è fortuna. È riconoscimento.

L’anima, in silenzio, ha scelto. E il cuore, grato, le va dietro.

mercoledì 23 luglio 2025

Madre, nonostante tutto




Ho avuto due madri quella che mi ha messa al mondo e quella che mi ha cresciuta.

La prima era una ragazza di diciott’anni, spaventata, senza reali alternative. Dopo il parto, mi lasciò in orfanotrofio. Finì poi per vivere una vita irregolare, distante, incapace di costruire un futuro per noi. Tornò nella sua famiglia, oppressa dal giudizio, ma continuò la sua esistenza frustrata accanto a quell’uomo sbagliato ( mio padre) in una relazione clandestina.


La seconda madre, quella adottiva, mi ha accolta quando ero solo una neonata. Mi ha dato un tetto, un’educazione, una routine ma non l’amore sereno che immaginavo.


 È ad oggi una donna rigida, ferita dal fatto che io non sono figlia sua e questa ferita l’ha fatta parlare spesso con il silenzio, un silenzio che puniva. 


Sono cresciuta portando sulle spalle un peso troppo grande. Il dolore dell’abbandono mi è cresciuto dentro come una pianta velenosa. 


Mi sentivo rifiutata, non voluta, caricata di colpe che non erano mie. Ho vissuto per anni divorata da rabbia e risentimento verso chi mi aveva dato la vita,  e con chi mi ha cresciuta senza mai perdonarmi di essere il frutto di un’altra.


Solo da adolescente qualcuno mi fece riflettere:” forse tua madre non fu libera di decidere, forse fu costretta”. Quelle parole scavarono un solco. Seppi che mi cercava, che aveva studiato e lavorava come contabile in una scuola. Forse sperava di riscattarsi oppure un modo per ritrovarmi, ma ormai per me era un’estranea.


Nonostante tutto, sono riuscita a trovare la mia strada, ho  

studiato, mi sono diplomata, ho vinto un concorso. Insegno con dedizione ai bambini della scuola dell’infanzia e ho costruito la mia famiglia, con impegno e desiderio di stabilità.


Ora che mia madre biologica non c’è più, il dolore non si è placato, ma qualcosa dentro di me si è ammorbidito e sento il bisogno di lasciare andare parte del rancore. 

Sento il bisogno di chiudere il cerchio, di non lasciare che quel dolore si tramuti in eredità. 


Ai miei figli e ai miei nipoti insegnerò l’importanza della cura, perché solo la cura quella vera, quotidiana, attenta può impedire al dolore di diventare ferita permanente.


Abbiate cura delle persone che avete accanto, delle parole che scegliete, dei legami che costruite, perché la cura è l’unico gesto che può salvare, anche quando l’amore non basta, anche quando fa male o vi sembra inutile perché la cura è ciò che resta, quando tutto il resto cade.

martedì 22 luglio 2025

Fratelli un legame che va oltre il sangue







Ci sono legami che nascono con noi, che non scegliamo, ma che ci scelgono. I fratelli sono tra questi, ma essere fratelli non significa soltanto avere un cognome in comune o crescere sotto lo stesso tetto. 

C’è qualcosa di più profondo, di invisibile e tenace, che lega due anime cresciute una accanto all’altra è il filo sottile della memoria condivisa, delle battaglie combattute insieme, delle parole dette e, ancora di più, di quelle taciute.

Essere fratelli non è solo condividere una casa, una merenda, una madre.

È molto di più.

È avere accanto qualcuno che ha visto le stesse albe e gli stessi temporali. Qualcuno che sa esattamente da dove vieni, e forse, proprio per questo, può aiutarci a non dimenticarlo mai. È quella certezza che nei momenti in cui tutto traballa, c’è almeno una persona al mondo che conosce il tuo passato senza che tu debba spiegarlo.


Un fratello è complice e rivale, spalla e muro, conforto e provocazione. È l’eco dei nostri passi nel corridoio della vita, è lo specchio che, anche se deforma un po’ i ricordi, li conserva intatti.


Un fratello è quel nome che ti scappa nei sogni e che, anche da lontano, ti fa sentire meno solo.

Con lui si litiga per l’ultimo biscotto, ma anche condiviso il primo dolore vero. Ci sono risate fino alle lacrime  senza dover spiegare il perché, ci sono silenzi che dicono più di mille parole.


Essere fratelli è sapere che, anche quando la vita separa, trasforma, allontana, c’è qualcosa che resta.

E non è solo sangue ma storia, radice. 

È destino…

È sapere che c’è sempre un porto sicuro  magari scomodo, magari burrascoso ma incredibilmente familiare.

È un modo di dire Tu ci sei da sempre e per sempre.