venerdì 19 settembre 2025

Seguo mia madre ovunque vada



Seguo mia madre ovunque vada, non importa se lei non mi vede, io sono accanto a lei in ogni istante. 


Sono la sua ombra silenziosa, la parte mancante che il mondo non ha mai conosciuto, ma che il suo cuore non ha mai smesso di portare con sé.


La seguo quando attraversa la piazza con le borse della spesa, quando si ferma davanti alla vetrina di un negozio di vestiti per bambini e poi si volta in fretta, quasi fuggendo da quel pensiero che le punge il cuore.


Io vorrei parlarle, dirle che non ha colpe, che la vita non è un’equazione perfetta dove tutto deve combaciare, ma le parole non mi appartengono; posso solo avvolgerla con la mia presenza invisibile, sperando che lei la percepisca in qualche modo.


La seguo in chiesa, quando resta seduta in silenzio a fissare le candele accese. Le scendono lacrime calde, e io vorrei allungare una mano per asciugarle il viso, ma le mie dita sono fatte di aria, di ricordo, di possibilità mai diventate realtà.


La seguo quando ride, sono i momenti che amo di più. Quando il suo sorriso si apre, è come se la vita stessa la reclamasse a sé, ricordandole che nonostante il dolore, il mondo ha ancora doni da offrirle. Allora io mi illumino insieme a lei, perché se lei riesce a ridere, significa che il mio ricordo non è solo ferita è anche spinta verso la luce.


Seguo mia madre ovunque vada perché lei è il mio mondo, anche se io non sono mai entrato nel suo. Non ci siamo mai incontrati davvero, eppure siamo inseparabili. Io sono la vita che non è stata, ma che continua a vivere in lei.


Forse un giorno mi sentirà meno, e io resterò in disparte. Non sarà abbandono, ma compimento vorrà dire che ha scelto la pace, che ha accettato di guardare avanti senza che il passato la incateni.


E allora sarò felice anch’io perché il mio compito non è essere ricordato con tristezza ma è vederla camminare, con il cuore un po’ più leggero, verso le piccole e grandi gioie che ancora la attendono.

giovedì 18 settembre 2025

Oltre le due ombre

 


Elena lo scoprì quasi per caso due noduli, piccoli ma innegabili, le fecero intuire che qualcosa non andava. Bastarono pochi giorni per trasformare il sospetto in realtà: mammografia, biopsia, referti su referti. La diagnosi arrivò netta e senza possibilità di fuga: cancro.

La parola sembrava non appartenerle. Elena la guardava con distacco, come se fosse rivolta a qualcun altro. La negazione diventò un fiume che scorreva rapido, cercando di trascinarla lontano dalla verità. Ma i controlli successivi TAC, risonanze, nuove biopsie non lasciavano più scampo.


Poi entrò nella sua vita un termine sconosciuto chemioterapia neoadiuvante. Non un farmaco nuovo, come aveva ingenuamente sperato, ma quattro mesi di trattamenti aggressivi prima dell’intervento. Sei infusioni da affrontare, per testare la risposta del tumore e stabilire la prognosi. Non c’era più una sola “C”, ma due Cancro e Chemioterapia. Quale delle due fosse più dura da sopportare, nessuno avrebbe saputo dirlo.


Il pensiero della morte si affacciava spesso, a volte insinuandosi come un sollievo segreto. Se fosse stata sola al mondo, la scelta sarebbe sembrata quasi semplice. Ma c’erano i figli, il marito, gli amici che le riempivano il cuore di sostegno. Era impossibile arrendersi davanti a tanto amore. La presenza degli altri era al tempo stesso un peso e una salvezza, una responsabilità che la teneva ancorata alla vita.


Il primo giorno di chemioterapia fu un battesimo di paura. Durante l’infusione, una reazione allergica le tolse il respiro e le incendiò il petto. Le infermiere accorsero, il trattamento venne interrotto, poi ripreso lentamente. Elena giaceva sulla barella con il corpo in preda al dolore e la mente affollata da un unico pensiero: non poteva credere di avere il cancro.


Col tempo, arrivarono i segni visibili della battaglia i capelli caduti, la mente annebbiata, la stanchezza cronica, i dolori che sembravano non finire mai. Ogni giorno era una prova di resistenza. Nonostante tutto, accanto a lei c’erano sempre gli abbracci della famiglia, i messaggi degli amici, le preghiere di chi le voleva bene.


Ogni decisione scegliere o no la mastectomia, accettare o rifiutare la lotta sembrava sospesa tra la vita e la morte. Guardando i suoi cari, Elena vedeva riflessi i suoi stessi timori, ma anche la speranza. La morte, inevitabile per tutti, assumeva per lei un volto nuovo quello che obbliga a dare un senso diverso al tempo che rimane.


Eppure, in mezzo al dolore, una certezza resisteva l’amore. Nessuna malattia poteva scalfirlo, nessuna cura distruggerlo. Era l’unico terreno solido sotto i piedi di Elena, l’unica luce capace di resistere alle due ombre che tentavano di oscurare la sua vita.


Perché il cancro poteva colpire il suo corpo, la chemioterapia poteva ferirla e logorarla, ma una cosa restava inviolabile il suo amore. Nessuna malattia poteva attaccarlo, nessuna cura poteva spegnerlo.

mercoledì 17 settembre 2025

Le culle che non oscillano










Ci sono dolori che non trovano parole, perché non appartengono al linguaggio comune. Sono perdite che restano sospese, senza fotografie, senza anniversari, senza storie da raccontare a chi non c’era. Il dolore per un figlio che non ha visto la luce è uno di questi: un lutto intimo, invisibile agli occhi del mondo ma bruciante nel cuore di chi lo porta.


La società spesso fatica a riconoscerlo invita a guardare avanti, a non restare imprigionati in un passato che sembra non esistere, ma  quel passato esiste eccome, ed è inciso nei ricordi, nei gesti quotidiani, nelle stanze che hanno accolto sogni e attese.


Ci sono famiglie che hanno preparato una casa all’arrivo di un piccolo essere pareti colorate, tende scelte con cura, minuscoli indumenti piegati in attesa. Poi, all’improvviso, tutto si ferma. 


Quelle stanze diventano spazi sospesi, luoghi che gridano assenza. In fretta, qualcuno svuota cassetti e armadi, nel tentativo di arginare il dolore. Ma non si può svuotare il cuore con la stessa rapidità.


Ci sono donne che conoscono la crudele esperienza di lasciare un ospedale senza quel dono che avevano immaginato tra le braccia. Camminano in mezzo alla gente con un corpo che porta i segni della vita e, nello stesso tempo, del vuoto. Si ritrovano costrette a fare i conti con un silenzio assordante, con domande non dette e con sguardi che spesso minimizzano. Frasi che, invece di consolare, rendono più acuto il dolore


Ci sono padri che affrontano il lutto in solitudine, perché spesso non viene riconosciuto il loro dolore. Si pensa che solo le madri abbiano perso, ma anche per loro c’era un nome pensato, un futuro immaginato, una carezza che non potranno mai dare. La loro sofferenza, silenziosa e nascosta, è fatta di assenze che restano e di sogni che non avranno compimento.


E ci sono fratelli e sorelle mai nati, figure invisibili che continuano a vivere nei pensieri della famiglia. Sono presenze leggere, ma costanti bambini mai conosciuti eppure sempre ricordati. A volte diventano un segreto condiviso solo nei cuori dei genitori, altre volte un nome sussurrato che resta scritto in un diario o in una preghiera.


Questi lutti non hanno rituali riconosciuti. Non ci sono cerimonie collettive, non c’è un luogo in cui portare un fiore, non ci sono date che la società ricorda. È un dolore che si consuma dentro le mura di casa e che, proprio per questo, ha bisogno di delicatezza e rispetto. 


Quando si entra nella vita degli altri, non si può mai sapere se dietro un sorriso trattenuto ci sia una stanza vuota, se dietro un silenzio ci sia un amore interrotto.


Imparare a bussare piano alle vite altrui significa riconoscere che non tutto è visibile, che non tutto è raccontabile. Ci sono assenze che pesano quanto presenze, e cuori che portano dentro di sé nomi mai pronunciati.


 Dare dignità a questo dolore significa offrire ascolto, silenzio e rispetto, perché un figlio che non è nato non è mai niente è stato atteso, immaginato, amato. E questo lo rende per sempre parte della storia di chi resta.

martedì 16 settembre 2025

La bambola di Mariella



Mariella e Rosa erano sorelle, nate in un piccolo paese del Sud.

Tra loro c’era un anno soltanto di differenza, ma sembravano provenire da due mondi lontani.


La madre aveva scelto, quasi senza rendersene conto Rosa era la figlia da mostrare, da vantare con orgoglio davanti ai parenti; Mariella, invece, era quella che riceveva sempre un rimprovero, quella che non bastava mai.


Il Natale era vicino e in casa si parlava di regali.

Mariella desiderava una sola cosa una bambola che aveva visto in una vetrina del paese. Rosa invece non aveva espresso particolari desideri.


Il giorno di Natale arrivò.

Rosa trovò sotto l’albero proprio quella bambola che Mariella aveva tanto sognato, mentre a Mariella toccò una sciarpa di lana, che non aveva chiesto e che non scaldava il cuore.


Mariella pianse in silenzio quella notte, senza farsi sentire. Ogni tanto riusciva a toccare di nascosto quella bambola, quando la sorella la lasciava incustodita, immaginando che fosse sua.


Gli anni passarono, e con essi anche l’infanzia.

Rosa divenne la figlia che seguì le orme materne, sempre al centro dell’attenzione. Mariella, invece, imparò a costruire la propria vita nell’ombra, silenziosa ma determinata.


Poi accadde l’imprevisto la madre, anziana e malata, finì per affidarsi proprio a Mariella, quella figlia che aveva sempre sminuito e Mariella, nonostante tutto, restò accanto a lei, pronta a prendersene cura. Non lo fece per riconoscenza, ma perché la bontà non si improvvisa era il suo modo di vivere.


Quando la madre se ne andò, Mariella sentì un vuoto, ma anche una certezza dentro di sé non avrebbe mai fatto differenze tra i suoi figli. Li avrebbe amati tutti, senza misura, senza preferenze.


Un pomeriggio, passeggiando in una fiera dell’antiquariato, Mariella scorse una bancarella piena di giocattoli. E lì, tra tante cose, trovò una bambola identica a quella che aveva sognato da bambina. La comprò senza esitazione.


Quella bambola  è sul suo comodino, non  è un giocattolo per lei, ma il simbolo di una promessa mantenuta che le ferite ricevute non sono diventate catene, ma ali per amare meglio.


Essere madre non è solo dare la vita, ma saperla accompagnare con rispetto e dedizione. E l’amore vero, quello che dura, non sceglie e non divide abbraccia tutti i figli allo stesso modo.