
Ci sono attimi nella vita in cui tutto si ferma. Il tempo rallenta, il fiato si blocca in gola, e il cuore sembra sospeso in un battito mancato.
Sono quei momenti in cui non c’è più spazio per il pensiero, per la paura o per il dubbio e non puoi permetterti di guardare da lontano, sperando che qualcun altro intervenga, perché quando vedi un bambino sparire tra le onde, la consapevolezza ti colpisce come uno schiaffo devi correre.
Non ci sono alternative, nè scuse e lì che scopri che il coraggio non è assenza di paura, ma capacità di agire nonostante la paura e che l’amore, quello vero, è sempre un gesto di movimento verso l’altro, verso il pericolo, verso la vita.
Quel pomeriggio il mare era inquieto, agitato come un bambino capriccioso. Le onde si rincorrevano con forza, inghiottivano palloni, secchielli, e risucchiavano impronte lasciate sulla sabbia. Le famiglie erano sparse lungo la riva, chi steso al sole, chi intento a costruire castelli di sabbia, chi immerso in chiacchiere leggere da domenica d’estate.
Io ero lì, seduta sotto l’ombrellone, con un libro aperto e lo sguardo che vagava tra le pagine e l’orizzonte. Non so perché, ma un senso di inquietudine mi spingeva ad alzare gli occhi più spesso del solito. E poi è successo.
Un grido. Non forte, non drammatico. Un grido piccolo, spezzato, quasi strozzato, poi un altro, più acuto. Mi sono voltata di scatto.
A una decina di metri dalla riva, tra le onde, ho visto un bambino. Avrà avuto sei o sette anni. Lo avevo notato poco prima, giocava con una palla rossa che adesso galleggiava poco più in là, ma lui, ora, annaspava.
Le braccia agitavano l’acqua in modo scomposto, il corpo sembrava scomparire e riemergere, mentre la testa affiorava solo a tratti. Non c’era nessuno vicino. Nessun adulto che si muovesse, solo occhi spalancati e bocche aperte.
Così ho capito... In certi momenti non puoi aspettare. Non puoi chiederti se sai nuotare abbastanza bene, se le onde sono troppo forti, se qualcuno dovrebbe farlo al posto tuo. In certi momenti devi correre.
Senza pensarci ho lasciato il libro, la borsa, le scarpe, mi sono lanciata tra le onde. Il mare mi ha accolto con violenza, cercando di spingermi indietro, ma io andavo avanti. Il bambino spariva sempre più spesso sotto la superficie.
Ho nuotato con tutta la forza che avevo. Il sale mi bruciava gli occhi, il cuore mi batteva nelle orecchie, le gambe sembravano pesanti come rocce, poi l’ho raggiunto.
Lui non urlava più, era stanco, impaurito, rigido come un corpo che si arrende. L’ho afferrato da sotto le braccia, tenendo la sua testa fuori dall’acqua, e ho iniziato a tornare.
Non so da dove ho preso l’energia, so solo che, passo dopo passo, bracciata dopo bracciata, siamo usciti dal mare.
Quando i suoi piedi hanno toccato la sabbia, ha cominciato a piangere. Un pianto che sembrava sciogliere tutta la paura, tutta la tensione. Una donna è corsa verso di noi era sua madre, piangeva anche lei, gridava il suo nome, lo stringeva come se volesse fondersi con lui.
Io mi sono accasciata lì, senza dire una parola. Avevo freddo, e tremavo, ma non era colpa del mare. Era l’adrenalina, il silenzio dopo l’urlo, la coscienza che tutto avrebbe potuto finire in modo diverso.
Da quel giorno ho imparato che il coraggio non ha a che fare con l’essere pronti. Il coraggio è non aspettare. È agire quando nessuno lo fa. È tuffarsi, anche quando non sei sicura di farcela, perché a volte, nel tempo di un respiro, puoi diventare il confine sottile tra la vita e il silenzio.


