martedì 23 settembre 2025

Chi è davvero un bambino



C’è una domanda che, a prima vista, sembra semplice ma che in realtà racchiude grande profondità, chi è un bambino?

La risposta immediata potrebbe essere un bambino è una persona che non ha ancora raggiunto l’età adulta, ma fermarsi a questa definizione sarebbe riduttivo, quasi freddo. Un bambino non è solo un individuo “in crescita” è una persona unica, che attraversa un tempo speciale della vita, fatto di scoperta, di meraviglia e di formazione.

Un bambino è curiosità pura, sa stupirsi davanti a ciò che noi adulti diamo per scontato: un fiore che sboccia, una nuvola che cambia forma, una mano che lo accompagna. È fiducia totale guarda gli adulti come punti di riferimento sicuri, si affida senza riserve, convinto che riceverà protezione e amore. Ed è proprio questa fiducia che ci ricorda la grande responsabilità che abbiamo nei suoi confronti.


Ma un bambino è anche vulnerabilità, non ha gli strumenti per difendersi da solo, non conosce ancora le regole dure del mondo, e per questo necessita della nostra cura, della nostra guida e del nostro rispetto.


Ogni bambino porta con sé diritti fondamentali il diritto al gioco, che non è un lusso ma una parte essenziale della crescita; il diritto all’istruzione, che apre le porte del futuro; il diritto di essere amato, ascoltato e considerato per ciò che è.


Un bambino non è un adulto in miniatura è un essere completo, con emozioni autentiche, con pensieri che meritano attenzione, con una personalità che chiede di sbocciare. Non dobbiamo plasmarlo a nostra immagine, ma accompagnarlo nel suo cammino, perché diventi se stesso.


In ogni bambino c’è una promessa la promessa di un futuro migliore. E il futuro dipenderà proprio da come sapremo rispettare e custodire questa promessa.


Dunque, parlare di bambini non significa parlare solo di età anagrafica, ma significa parlare di vita, di speranza e di responsabilità. Sta a noi adulti riconoscerlo e agire di conseguenza, perché ogni bambino ha diritto non solo a crescere, ma a crescere bene, con dignità, con gioia e con amore.

lunedì 22 settembre 2025

Il prezzo della resistenza


 







Ogni epoca è segnata da ondate di trasformazione alcune si insinuano a poco a poco, altre ribaltano tutto in breve tempo. In questi tempi di mutamento continuo, opporsi al cambiamento non è solo una reazione emotiva, è spesso una strategia che finisce per impoverire le possibilità di vita. Ma dietro a questa opposizione si nasconde qualcosa di più profondo di una semplice preferenza c’è una rete di paure, identità e abitudini che tiene prigionieri.


Resistere non è soltanto rifiutare nuove tecnologie o modelli di lavoro significa restare ancorati a una versione di sé che dà conforto e prevedibilità. Quando il mondo intorno a noi muta, quella vecchia versione perde la sua utilità le pratiche che prima funzionavano diventano inadeguate, le certezze diventano limiti. 


La resistenza nasce dalla naturale propensione del cervello a evitare rischi e preservare lo status quo l’incertezza attiva reazioni di difesa che spingono a cercare sicurezza, anche a prezzo della stagnazione.


Il cambiamento non è solo un fatto esterno è una trasformazione dell’identità. Molte persone si definiscono attraverso ruoli, abitudini e storie personali; rinunciarvi significa rinegoziare chi si è. A questo si aggiungono fattori sociali  norme, aspettative, reti di relazioni che consolidano il comportamento. La combinazione di paura personale e pressione sociale rende il lasciar andare particolarmente arduo.


Chi rifiuta di adattarsi si espone a rischi concreti perdita di opportunità, marginalizzazione professionale, crisi organizzative, ma c’è anche un costo interiore chi si aggrappa a vecchie certezze può sperimentare frustrazione, senso di irrilevanza o stagnazione personale. Al contrario, chi coltiva la capacità di reinventarsi spesso scopre nuovi sensi di efficacia e rinnovata motivazione.


Coltivare l’adattabilità non significa cambiare direzione ogni volta che soffia un vento diverso, ma allenarsi a vivere il cambiamento con maggiore naturalezza. Ci sono diversi modi per farlo nella vita quotidiana.


Il primo è mantenere viva una curiosità disciplinata non accontentarsi di ciò che già si sa, ma creare l’abitudine ad esplorare nuove conoscenze in maniera costante. Non serve imparare tutto, basta aprirsi con regolarità a prospettive diverse, letture nuove, esperienze che allargano lo sguardo.


Accanto alla curiosità, è utile praticare la sperimentazione controllata. Non sempre si tratta di rivoluzionare la propria vita a volte bastano piccoli tentativi, micro-azioni che ci permettono di testare un approccio diverso senza stravolgere tutto, così ci si abitua al movimento, senza sentirlo come una minaccia.


Un altro passo fondamentale è ridefinire la propria storia. Spesso ci raccontiamo in termini rigidi “sono fatto così”, “ho sempre fatto questo”. Ma imparare a descriversi in maniera più fluida, come persone in evoluzione, permette di accogliere nuove competenze e ruoli senza sentirli estranei.


Non meno importante è l’allenamento emotivo all’incertezza. Il cambiamento porta inevitabilmente con sé paure e ansia. Allenarsi a regolare le proprie reazioni con pause riflessive, esercizi di respirazione o semplici momenti di distacco aiuta a non farsi sopraffare dall’ignoto e a scegliere risposte più consapevoli.


Infine, nessun percorso di adattabilità si costruisce in solitudine. Le reti di supporto e di apprendimento sono essenziali circondarsi di persone che stimolano la crescita, che sanno offrire feedback costruttivi e condividere esperienze, rende il cambiamento più naturale e meno isolante.


In questo modo l’adattabilità diventa un allenamento costante, una pratica di vita che non solo prepara alle sfide, ma apre spazi di possibilità sempre nuovi.


Adattarsi non è una resa è un atto creativo e volontario. Non si tratta di cambiare per moda, ma di sviluppare la capacità di trasformare le sfide in possibilità. Invece di vedere il mutamento come minaccia, è possibile imparare a interpretarlo come opportunità di riscrivere chi siamo e cosa possiamo diventare. L’adattabilità diventa allora una pratica quotidiana, una scelta consapevole che avvantaggia sia l’individuo sia la collettività.

domenica 21 settembre 2025

Quando i doveri di un genitore diventano un peso







Essere genitori significa molto più che avere figli significa assumersi responsabilità concrete, quotidiane, che riguardano la salute, l’educazione e il benessere emotivo dei propri figli. Ogni decisione presa e ogni contributo economico versato non è un favore, ma un dovere imprescindibile.

Purtroppo, capita che qualcuno interpreti questi doveri come un peso e li trasformi in strumenti di rifiuto o controllo. Succede, ad esempio, quando un padre  utilizza pretesti per sottrarsi alle proprie responsabilità economiche nei confronti della figlia. 

Liste d’attesa lunghe, procedure burocratiche o piccole difficoltà diventano ragioni per astenersi dal contribuire a cure mediche, visite specialistiche o altre necessità vitali, costringendo l’altro genitore a farsi carico di tutto, spesso sostenendo spese ingenti in strutture private.


Il paradosso emerge con chiarezza quando, nello stesso periodo, lo stesso genitore trova tempo, risorse e voglia di dedicarsi al proprio svago serate con amici, tempo libero con la nuova compagna, viaggi e divertimenti. La disponibilità economica e la capacità di gestire il proprio tempo ci sono, ma la volontà di adempiere ai doveri genitoriali viene meno.

Questo comportamento non è solo ingiusto è una forma sottile di violenza emotiva. I figli percepiscono la disparità, anche se indirettamente, e l’altro genitore, costretto a supplire, vive un peso enorme, spesso con senso di frustrazione e impotenza. 

La genitorialità non dovrebbe mai diventare uno strumento di conflitto o di rivalsa personale; al contrario, è un compito sacro e condiviso, che richiede equilibrio, dedizione e responsabilità costante.

Ogni figlio merita di avere entrambi i genitori presenti, non solo affettivamente, ma anche concretamente. Quando uno dei due si sottrae a queste responsabilità, non solo danneggia l’altro genitore, ma soprattutto la figlia, che rischia di crescere in un contesto dove la giustizia e il rispetto dei propri diritti diventano concetti difficili da comprendere.

Essere genitori significa scegliere, ogni giorno, di non mettere il proprio piacere o il proprio interesse davanti al bisogno dei figli. È un atto di responsabilità che non ammette scuse né pretesti chi diventa genitore deve esserlo fino in fondo, con coerenza, dedizione e rispetto per chi più di ogni altro dipende da noi.

sabato 20 settembre 2025

Il dolore non è solo un dato da misurare






Il dolore non è solo un dato da misurare o una variabile da trattare è l’apertura di una comunicazione incarnata che chiama una risposta relazionale. Quando la medicina riduce la sofferenza a un sintomo misurabile, confrontabile, perde la possibilità non solo di curare meglio, ma soprattutto di riconoscere la persona come individuo. 

L’essere umano non è una somma algebrica di parametri clinici, organici, funzionali, né tanto meno un insieme di dati scomponibili e isolabili. 

Esso è una totalità sorprendentemente irriducibile che comprende corpo, psiche, storia, relazioni, universo ermeneutico e simbolico. 


Quando la medicina “divide” per analizzare, guadagna certamente precisione e rigore tecnico ma rischia di perdere l’orizzonte della complessità umana. Con ciò non voglio dire che la divisione analitica debba passare in secondo ordine o essere svalutata.


 Al contrario, essa rimane uno strumento necessario senza la capacità di distinguere, classificare, misurare, la medicina non sarebbe in grado di offrire diagnosi tecnicamente affidabili né di sviluppare terapie risolutive efficaci. L’analisi è ciò che consente di oggettivare il fenomeno, di renderlo comunicabile, di confrontarlo con protocolli condivisi.

Il problema nasce quando questa prospettiva diventa esclusività nel  senso che l’approccio analitico non si limita più a essere uno strumento tecnico di conoscenza, ma pretende di esaurire l’intera verità della sofferenza del paziente. In questo modo, ciò che è solo un frammento di laboratorio viene dichiaratamente assunto come il tutto di una totalità ben diversa e lontana dalla complessità umana di cui si parlava. 


La prospettiva analitica, dunque, deve restare aperta mai assoluta. Deve riconoscere i suoi limiti e accettare che i dati oggettivi non dicono mai tutto. Solo in questo modo l’analisi ritrova la sua funzione originaria non sostituirsi alla persona, ma mettersi al servizio della sua cura e apertura comunicativa.