martedì 7 ottobre 2025

Il potere nascosto delle parole proibite








Mi sono trovata più volte a riflettere sull’uso delle parolacce e su ciò che rivelano, non solo di chi le pronuncia, ma anche della società che le giudica. Da sempre, la parolaccia è considerata il mezzo dei deboli, un rifugio per chi si illude di possedere forza attraverso il linguaggio aggressivo. In molti la associano a scarsa intelligenza, a un vocabolario povero, a mancanza di creatività o di educazione. Eppure, nonostante il disprezzo che suscita, è un’abitudine universale tutti, in un modo o nell’altro, finiscono prima o poi per imprecare.

Nei momenti di dolore, rabbia o sorpresa, la parolaccia scappa come un riflesso, quasi un grido del corpo prima ancora che della mente. È un gesto linguistico istintivo e profondamente umano. Tuttavia, il suo significato e la sua percezione variano da cultura a cultura ciò che in un paese è considerato volgare, in un altro può essere semplicemente ordinario. Le lingue, dopotutto, non condividono gli stessi tabù.


Le radici di queste parole “proibite” si perdono nella storia sociale e linguistica. Molto spesso, ciò che oggi chiamiamo “volgare” nasce da un pregiudizio antico. Quando una società è divisa in classi, il modo di parlare dei ceti inferiori tende a essere stigmatizzato. Le parole quotidiane della gente comune diventano, col tempo, marchiate come rozze, mentre quelle usate dalle classi dominanti vengono considerate più nobili. Così nascono le parolacce dal disprezzo sociale, più che dal contenuto reale delle parole.


Questo meccanismo si ripete in molte culture. Ogni lingua possiede un suo dialetto parlato dai più ricchi o dai più istruiti, alle classi popolari. Quando una parola appartiene a questi ultimi e tocca argomenti considerati tabù  il corpo, la sessualità, la religione, la morte viene bollata come indecente. È quindi il potere sociale, non il linguaggio in sé, a decidere cosa è educato e cosa no.


Ma se le parolacce nascono da un pregiudizio, perché continuano a esistere? Forse perché svolgono una funzione che va oltre la comunicazione. Numerosi studi hanno dimostrato che imprecare può alleviare il dolore, ridurre lo stress e persino migliorare le prestazioni fisiche. Quando imprechiamo, il cervello attiva il sistema limbico, la sede delle emozioni, e rilascia adrenalina: il corpo reagisce come se dovesse difendersi. In quei momenti, la parolaccia non è più solo una parola, ma un’espressione istintiva di sopravvivenza.


Curiosamente, chi possiede un vocabolario ricco tende a usare le parolacce in modo più consapevole e creativo. Esse non sono, quindi, il segno di una mente povera, ma piuttosto di una sensibilità linguistica capace di scegliere la parola giusta per esprimere un’emozione intensa. Inserite nel contesto giusto, le parolacce possono avere una potenza comunicativa straordinaria, capace di scuotere, di far sorridere, di rendere più autentico un discorso o un testo.


Forse le parolacce non sono altro che una delle tante contraddizioni del linguaggio umano disprezzate e amate, vietate eppure indispensabili. Senza lo stigma che le circonda, perderebbero la loro forza. È proprio il divieto a renderle così vive.


In fondo, alcune delle parole più forti e memorabili che conosciamo sono proprio quelle che ci viene insegnato a non dire.

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