venerdì 10 ottobre 2025

La campanella di latta



Nel villaggio i giorni avevano iniziato a misurarsi in rumori prima il clangore dei carri, poi il fischio lontano, infine i lampi che non si potevano guardare. 

Matteo aveva cinque anni e contava le sigarette spente come se fossero stelle cadute. Sua madre gli insegnava a chiudere le persiane, a parlare piano, a non nominare le cose troppo grandi. 


Ogni sera, quando il mondo sembrava trattenere il respiro, lei prendeva una vecchia lattina e la trasformava in una campanella con uno spago. La batteva piano contro il davanzale e la campanella faceva un suono sottile, rotondo  come se qualcuno avesse accordato l’aria per essere meno pungente.


I bambini del vicinato, che avevano imparato a riconoscere i tonfi anche da mille metri, cominciarono a radunarsi davanti alla finestra. Non era una festa, non ancora; era una pausa dal sospetto. Matteo imitava la madre scuoteva la lattina e rideva, un suono piccolo, fragoroso per il cuore di chi lo ascoltava. La risata di un bambino era contagiosa come il vento sugli alberi; scalfiva la tensione, lasciava che per un attimo i pensieri tornassero normali.


Una notte un uomo in divisa, stanco e con le mani che tremavano, si fermò a guardare dalla strada. Non disse nulla. Per la prima volta in settimane, sorrise senza sapere perché. La campanella di latta continuò a suonare. Quando il rumore più duro si sentì in lontananza, non sparì il timore ma quella risata restò come un altro suono possibile, una frequenza che non cedeva il campo al terrore.


Anni dopo, Matteo ricordò quel suono più spesso di qualunque altro nome. Non aveva dimenticato i rumori brutti come non si dimenticano le ferite ma sapeva che esisteva un altro registro il tono della sua stessa voce che rideva, un piccolo tamburo che gli diceva fosse ancora vivo. E capì che il mondo, per quanto rotto, poteva essere ricucito cominciando da lì dal suono del sorriso.

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