giovedì 2 ottobre 2025

La culla di legno


Era l’inverno del 1945. La città giaceva sotto una coltre di neve sporca, e ogni rumore sembrava rimbombare nel vuoto delle strade. Le finestre erano buie, le porte sprangate la vita si nascondeva ovunque, come se il respiro stesso fosse diventato clandestino.

In una stanza spoglia, una donna guardava il suo bambino dormire. Le guance arrossate dal freddo, il petto che si sollevava piano, ignaro della tempesta che li circondava. Non aveva pane, non aveva fuoco, non aveva più tempo, ma aveva ancora una possibilità donargli un futuro che a lei non sarebbe stato concesso.


Con mani febbrili raccolse alcune assi, un vecchio panno, e costruì una piccola culla improvvisata. Non era solida, non era bella, ma aveva il respiro della speranza. Vi adagiò il neonato con una cura che sapeva di addio, lo strinse ancora una volta e poi si fermò, trattenendo il pianto.


Nella casa c’era una botola di legno, invisibile sotto un tappeto consunto. Era l’accesso a un sotterraneo umido, un passaggio che conduceva agli scantinati della città. Lì sotto, lontano dagli occhi del mondo, qualcuno aspettava un uomo pronto a portare via il bambino e a custodirlo.


La madre sollevò la botola. L’odore di terra e muffa le salì alle narici. Non esitò abbassò lentamente la culla verso le mani che emergevano dall’oscurità. Le dita che si incontrarono per un istante furono il ponte tra due destini: chi rinunciava e chi raccoglieva.


Non scese con lui. Non cercò di salvarsi. Restò al di sopra della botola, con la neve che filtrava dalle fessure e il cuore che batteva come tamburo di guerra. Si chinò, accarezzò appena il volto del figlio e mormorò parole che si persero nell’aria: “Vai oltre me. Vivi dove io non potrò accompagnarti.”


Poi la botola si richiuse. E il mondo si divise sopra, una madre che attendeva la fine; sotto, un bambino che portava con sé il seme di un domani.


Nessuno trascrisse il suo nome. Nessuna fotografia catturò i suoi lineamenti. Il tempo cancellò le tracce, ma non il gesto. Il figlio sopravvisse, crebbe tra voci estranee che divennero care, portando dentro di sé un amore che non ricordava con la memoria, ma con il sangue.


Molti anni dopo, divenuto uomo, tornò nella città del suo inizio. Cercò la casa ormai in rovina, e trovò ancora quella botola di legno, nascosta e dimenticata. Si inginocchiò davanti a essa e vi posò una rosa rossa. Rimase in silenzio a riflettere di come quel posto nascosto agli occhi di molti, gli aveva salvato la vita.


Non c’era nessuno ad ascoltarlo, ma in quel gesto il tempo si riannodò. La madre, senza volto e senza nome, viveva ancora in quell’eredità silenziosa. Il suo amore non aveva monumenti né targhe, ma continuava a fiorire nel respiro del figlio che aveva scelto di lasciare andare.

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