
Aiutare è uno degli atti più profondamente umani. È il gesto che nasce spontaneamente quando vediamo qualcuno in difficoltà, soprattutto se si tratta di una persona a cui vogliamo bene. È naturale voler tendere la mano, offrire un appoggio, diventare rifugio.
Ma c’è un confine invisibile che, se oltrepassato troppe volte, trasforma la generosità in un peso.
Un confine sottile tra il ti aiuto perché tieni a me e il mi usi perché sai che ci sarò comunque.
Ed è proprio lì che l’amore, il cuore buono, la bontà sincera, si trasformano silenziosamente in catene.
Ci sono richieste che arrivano sempre accompagnate da giuramenti, promesse, lacrime e buone intenzioni. E noi, armati di speranza, scegliamo ancora di credere, perché chi ama, spesso, non misura, non si protegge, spesso confonde il salvare con l’amare.
Ma non c’è vero amore se, per amare, bisogna svuotarsi.
Aiutare qualcuno dovrebbe essere un’azione temporanea, un appoggio, non un trasferimento costante di responsabilità.
Quando, invece, l’aiuto diventa una condizione permanente, quando si ripete in un ciclo fatto di richieste sempre più grandi e ritorni sempre più piccoli, allora non è più aiuto è dipendenza e chi dà finisce per consumarsi.
Non è sempre facile rendersene conto, perché spesso chi chiede aiuto sa bene come toccare le corde giuste il senso di colpa, la compassione, il bisogno di sentirsi utili.
Solo col tempo, quel gesto che sembrava nobile diventa una trappola emotiva.
Un modo per tenere l’altro in posizione di potere, e chi aiuta in posizione di eterno debitore della sua stessa bontà.
Aiutare non significa sacrificarsi all’infinito, né diventare la soluzione ai problemi altrui.
Significa offrire una possibilità, non assumersi il dovere di sistemare tutto.
Smettere di aiutare chi non vuole davvero cambiare non è crudeltà.
È maturità emotiva. È comprendere che chi resta immobile, spesso, lo fa perché sa che qualcun altro lo spingerà avanti.
È capire che, finché continui a toglierti qualcosa per darle a chi non lo valorizza, si sta insegnando all’altro a non crescere.
Non si sta facendo il suo bene, ma solo permettendogli di restare lì dove gli conviene.
A volte, fermarsi è l’unico modo per provocare un risveglio.
Non accorrere, non rispondere, non salvare… è un atto d’amore più grande, perché permette all’altro di vedersi, di toccare il fondo, di assumersi le proprie responsabilità.
L’aiuto non è amore se ti svuota. Non è cura se ti consuma, né generosità se ti riduce al silenzio e al pianto.
Esiste una compassione lucida, ferma, che non si lascia manipolare che conosce il limite tra dare per amore e darsi via per bisogno.
Quella compassione dice che ti ho aiutato, ti ho amato, ma ora basta.
E così si guarisce.
Nel momento esatto in cui si comprende che non tutti vogliono cambiare, non tutti meritano la nostra lotta.
Che c’è chi, per essere aiutato davvero, ha bisogno che si smetta di salvarlo, perché l’aiuto vero non è trattenere è lasciare che la vita insegni ciò che noi non possiamo più insegnare.
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