martedì 30 settembre 2025

Quando un padre cancella la madre agli occhi della figlia




Dopo una separazione, l’impegno più grande dei genitori dovrebbe essere quello di proteggere l’equilibrio dei figli. Sono loro, infatti, a subire maggiormente le conseguenze delle decisioni e dei conflitti degli adulti. 


Purtroppo, non sempre accade. Ci sono padri che, una volta intrapresa una nuova relazione, iniziano a sminuire la madre davanti alla figlia, quasi a voler cancellare la sua presenza o ridimensionarne l’importanza.


Si tratta di atteggiamenti che possono sembrare banali o detti per rabbia, ma che lasciano segni profondi. 


Una bambina o un’adolescente che sente il proprio padre ripetere che la madre non è abbastanza brava, che ha commesso errori, che non merita stima, finisce inevitabilmente per confondersi. Da un lato ama e riconosce la madre come punto di riferimento, dall’altro teme di tradire il padre se non si adegua alla sua visione. È una frattura invisibile, che spesso si trasforma in un senso di colpa o in una perdita di fiducia verso se stessa.


Sminuire una madre, infatti, non significa soltanto screditare una persona significa intaccare le radici della figlia.


 Una bambina cresce sapendo di provenire da entrambi i genitori; se uno dei due viene denigrato, è come se una parte di lei stessa fosse messa in discussione. Questo può generare insicurezza, rabbia, fragilità emotiva che la accompagneranno anche in età adulta.


Un padre che agisce in questo modo dimentica che la sua responsabilità non è vincere una rivalità con la ex compagna, ma garantire alla figlia un ambiente di rispetto e di equilibrio. La nuova relazione sentimentale non dovrebbe mai diventare il pretesto per cancellare ciò che c’era prima la figura materna non può essere sostituita, perché il legame madre-figlia è unico e insostituibile.


Il compito di un genitore maturo è accompagnare la crescita della figlia insegnandole a onorare entrambi i legami, senza farle vivere l’amore come una competizione. Solo così potrà sentirsi libera di amare sia la madre sia il padre, senza conflitti interiori.


 In questo modo comprenderà che le relazioni non devono mai nascere dall’annullamento dell’altro, ma dal rispetto, anche quando la vita prende strade diverse.

lunedì 29 settembre 2025

Il peso della memoria e l’incapacità di trasformarla in coscienza








Ricordare il male è una delle azioni più difficili e, allo stesso tempo, più necessarie per l’umanità. Ogni volta che ci troviamo davanti ai segni di ciò che è accaduto guerre, stermini, ingiustizie, persecuzioni, tradimenti la memoria dovrebbe funzionare come una bussola morale, capace di orientare le generazioni future verso scelte diverse. Eppure, la storia ci dimostra che non basta ricordare per cambiare.

Il male viene ricordato nei libri, nei monumenti, nelle celebrazioni civili e religiose, nelle testimonianze tramandate da chi l’ha vissuto, ma spesso questa memoria resta sterile, non diventa trasformazione. Perché? Forse perché il ricordo, se non accompagnato da coscienza viva, rischia di essere rituale, un atto di memoria che consola la nostra coscienza più che metterla davvero in discussione. Si ricorda per onorare, per non dimenticare, ma troppo raramente si ricorda per prevenire.


La memoria, da sola, non ha potere se non è nutrita da un pensiero critico, da un impegno concreto, da una volontà di cambiare gli schemi che hanno permesso al male di manifestarsi. L’uomo, infatti, tende a separare il passato dal presente riconosce l’orrore di ieri, ma si giustifica nelle piccole ingiustizie di oggi. Così la memoria diventa un contenitore separato, come se il male appartenesse sempre a qualcun altro, mai a noi.


Eppure ricordare ha un senso profondo ci serve per riconoscere i segnali, le avvisaglie, i semi del male che ogni epoca porta con sé. Non basta sapere che c’è stato l’Olocausto, la schiavitù, i genocidi, le torture; serve comprendere come certe dinamiche di odio, esclusione, indifferenza e disumanizzazione possano rinascere sotto forme diverse, più sottili ma non meno pericolose.


Il valore del ricordo non sta quindi nel semplice custodire, ma nel trasformare la memoria in responsabilità. Serve a mantenere vivo il legame tra ciò che è stato e ciò che potrebbe accadere. Serve a non abituarsi mai al dolore altrui, a non considerare mai “normale” l’ingiustizia, ma soprattutto, a ricordarci che il male non è un evento straordinario della storia, ma una possibilità costante che abita l’essere umano.


Il ricordo autentico non è nostalgia né celebrazione è vigilanza è la scelta di non chiudere gli occhi davanti a nuove forme di oppressione, di non accettare passivamente le derive del presente. perché la memoria da sola non cambia l’umanità, ma l’umanità può cambiare solo attraverso una memoria vissuta come coscienza attiva.

domenica 28 settembre 2025

La botteguccia della speranza







Se avessi una botteguccia piccola, quasi nascosta in una via laterale, non venderei oro né gioielli, né profumi o spezie. Nella mia botteguccia ci sarebbe una sola sostanza, invisibile e potente la speranza. Non avrebbe scaffali colmi di oggetti, ma cassetti di parole, gesti e sorrisi capaci di alleviare un cuore stanco.

Immagino un luogo semplice, con le pareti colorate di luce tenue e un campanello che suona dolcemente ogni volta che qualcuno entra. Non ci sarebbero prezzi, solo domande. “Di quanta speranza hai bisogno oggi?” chiederei. E la gente arriverebbe in punta di piedi chi con le mani vuote, chi con le lacrime agli occhi, chi con il cuore troppo pesante per riuscire ancora a credere nel domani.


A ognuno darei la sua dose giusta, non troppo piccola da dissolversi subito, né così grande da sembrare illusione. Una speranza che nutre, che consola ma anche che spinge ad agire, perché la speranza, se autentica, non è solo attesa ma forza silenziosa che invita a muoversi.


Nella mia botteguccia nessuno uscirebbe uguale a come è entrato. Non potrei togliere il dolore del mondo, ma potrei offrirne una chiave quella che apre la porta della possibilità, del “forse sì”, del “ancora posso”. Sarebbe un piccolo negozio, ma con dentro un universo intero.


Così, giorno dopo giorno, senza clamore e senza pubblicità, diventerebbe un rifugio per chi ha bisogno di respirare un po’ di futuro. Perché in fondo, anche quando tutto sembra crollare, la speranza è l’unica sostanza che non si esaurisce mai davvero, se qualcuno ha il coraggio di donarla.

sabato 27 settembre 2025

Il suono del sorriso




Un bambino che ride è la prova vivente che il mondo, almeno in quel momento, non è ostile. La sua risata è un ponte invisibile tra l’innocenza e la speranza, un richiamo universale che attraversa culture, lingue e confini. Eppure, non in ogni parte del mondo i bambini possono conoscere questo suono. Troppi di loro imparano troppo presto a distinguere il rumore delle sirene, il fragore delle esplosioni, lo scricchiolio dei muri che crollano. Suoni che nessun orecchio in formazione dovrebbe mai custodire nella memoria.


I primi anni di vita sono un terreno fragile e fertile insieme ciò che vi cade dentro vi rimane, spesso per sempre. Se il seme che un bambino riceve è fatto di paura, di privazioni e di silenzi imposti dal terrore, allora anche il suo albero crescerà storto, con radici che cercano di affondare in un terreno instabile, ma  se quel seme è bagnato da parole buone, da carezze che rassicurano, da risate che rimbalzano tra le pareti di casa, allora i suoi rami si allungheranno verso la luce, capaci di accogliere e dare ombra.


Proteggere l’infanzia significa custodire il patrimonio più prezioso che abbiamo non solo la vita dei piccoli, ma la qualità delle loro memorie. Un bambino che ride oggi sarà un adulto che saprà fidarsi domani. Un bambino che cresce ascoltando incoraggiamenti, racconti, canzoni, sarà un adulto che conosce la forza delle parole e saprà usarle invece delle armi.


Il suono del sorriso non è un dettaglio, è un’educazione alla speranza. Ogni volta che un adulto riesce a restituire un momento di leggerezza a un bambino, sta facendo un atto di pace. Non è retorica è un gesto politico, etico e umano perché le guerre, spesso, cominciano molto prima delle bombe: nascono nei cuori di chi, da piccolo, ha imparato solo il linguaggio della paura e della sopraffazione.


Ecco perché ogni risata infantile è un mattone di futuro è un “no” silenzioso alla violenza, un “sì” fragoroso alla vita. Coltivare sorrisi non significa illudersi che il male non esista, ma garantire che il bene non venga soffocato. Se imparassimo a misurare la pace non dal silenzio delle armi, ma dalla frequenza delle risate dei bambini, avremmo uno strumento nuovo e autentico per capire quanto sia davvero sano il nostro mondo.

venerdì 26 settembre 2025

Il valore dell’imprevisto


Camminavo per le vie di un pomeriggio qualunque, convinta che nulla potesse sorprendermi davvero. Il cielo era uniforme, senza sfumature, la città sembrava procedere con il suo ritmo abitudinario passi veloci, telefoni che squillavano, visi distratti. Mi sentivo parte di quel fluire monotono, quasi un ingranaggio in una macchina che non si ferma mai. Eppure, fu proprio in uno di quei giorni che compresi quanto sia raro e prezioso incontrare persone capaci di improvvisare.

Ho sempre avuto un debole per chi non si prepara a vivere, ma semplicemente vive. Per chi non ha bisogno di pensare troppo prima di parlare, per chi non costruisce le frasi come se stesse cercando approvazione. Amo quelle anime che ti sorprendono con gesti improvvisi, che ti sfiorano il braccio solo perché ne hanno sentito il bisogno, che ridono senza preoccuparsi di apparire ridicole, che ti guardano con occhi pieni di vita, senza dover dire nulla di più. In loro c’è una purezza che non si compra, una libertà che non si insegna.


Nella mia vita ne ho incontrate poche, ma ogni volta che accade è come respirare aria fresca dopo un lungo inverno chiuso in casa. Quelle persone hanno la capacità di sciogliere nodi invisibili, di riportarti a una dimensione più semplice, più vera. Con loro non servono maschere, non servono difese. Ti accorgi che la spontaneità è la forma più alta di sincerità, e che chi la possiede porta con sé una verità che illumina.


Io stessa, accanto a queste anime, mi trasformo. Non so se da sola riuscirei ad avere lo stesso coraggio, ma con loro sì. È come se mi regalassero il permesso di essere libera, di lasciarmi andare, di vivere senza dover giustificare ogni battito del cuore. La loro improvvisazione diventa anche la mia, e in quel terreno comune nascono i momenti più autentici.


Il tempo accanto a loro non ha nulla a che vedere con le lancette dell’orologio. Non si misura in ore, ma in emozioni. È fatto di sorrisi spuntati dal nulla, di sguardi che spezzano i silenzi, di gesti piccoli e inattesi che restano impressi più di qualsiasi programma ben riuscito. È un tempo che non si accumula, ma che si imprime dentro, lasciando tracce che durano più a lungo di qualsiasi certezza.


Forse è proprio questo che cerco: non la perfezione, non la sicurezza di un piano, ma l’imprevisto che scuote e sorprende. Non chi sa già cosa fare e cosa dire, ma chi si lascia attraversare dalla vita e mi permette di farlo insieme a lui, perché nei gesti spontanei si nasconde la vera bellezza una risata improvvisa che rompe un momento teso, una carezza che arriva senza motivo, una parola sussurrata perché non poteva restare taciuta.


Credo che l’imprevisto sia la vera essenza del vivere. È ciò che ci ricorda che non siamo macchine, che non tutto può essere calcolato, che l’emozione non nasce dai piani, ma dall’istante. L’imprevisto è un dono fragile, raro, irripetibile.


Ed è lì che io voglio stare, in quella zona viva e incontrollata, dove il cuore decide più della mente, dove ogni cosa accade perché deve accadere, senza prove, senza maschere, senza paura.

giovedì 25 settembre 2025

La solitudine silenziosa delle battaglie interiori



Qualche anno fa mi sono ritrovata a riflettere su una verità che non smette di accompagnarmi le battaglie più decisive della vita si combattono in solitudine. Non importa quante persone tu abbia accanto, non importa quante mani siano pronte a sostenerti ci sono momenti in cui ti rendi conto che il passo finale spetta soltanto a te.


Ho avuto la fortuna di essere circondata da affetti sinceri. Ho visto la premura di chi, in silenzio, cercava di alleggerire il mio fardello; ho accolto parole gentili, gesti veri, vicinanze che non dimentico, ma dentro di me sentivo comunque quel confine invisibile, quel varco che nessuno poteva attraversare insieme a me. Era come se la vita, a un certo punto, mi dicesse:”Adesso tocca a te che devi guardare dentro, decidere e resistere”.


All’inizio, quella solitudine mi spaventava, mi sembrava un deserto arido, privo di voci e di appigli, dove l’unico rumore era quello dei miei pensieri. In quei momenti avrei voluto fuggire da me stessa, delegare ad altri le mie paure, lasciare che qualcuno prendesse il timone al mio posto, ma  presto ho capito che non potevo nessuno può respirare dentro la tua angoscia, nessuno può sopportare quel silenzio che ti scava dentro.


È stato proprio lì, in quell’apparente vuoto, che ho iniziato a conoscermi davvero. Ho scoperto che la solitudine interiore non è soltanto un peso da sopportare, ma un maestro severo che ti obbliga a fare i conti con la tua verità. Ho visto chiaramente le mie fragilità, i limiti che avevo sempre cercato di mascherare. Insieme a quelle fragilità, sono emerse anche forze che ignoravo di avere una resilienza silenziosa, la capacità di stare nella prova, il coraggio di non arrendermi.


Col tempo, ho imparato a guardare a quella solitudine con occhi diversi. Non più come a una condanna, ma come a una porta che si apre verso l’intimità più autentica con me stessa. Una porta che, una volta varcata, mi ha permesso di tornare agli altri in modo nuovo più sincera, più limpida, meno bisognosa di maschere.


Oggi so che la vita ci affida queste prove non per isolarci, ma per renderci più veri. La solitudine delle battaglie interiori non è il segno che siamo abbandonati, ma la conferma che ci è data la possibilità di incontrare la nostra essenza. E se si riesce a restare in quel silenzio senza fuggire, si esce con  uno sguardo più chiaro, un cuore più forte e una libertà che nessuno potrà toglierti.

mercoledì 24 settembre 2025

Il giorno in cui smetti di fare sconti



C’è un momento, nella vita di ciascuno di noi, in cui ci guardiamo allo specchio e capiamo davvero chi siamo. Non è un istante qualunque è il punto di svolta. È il momento in cui realizziamo che il nostro valore non è negoziabile, che non può essere messo in saldo, che non merita sconti.


Quante volte abbiamo accettato meno di quello che meritavamo? Un lavoro sottopagato, un amore che non ci rispettava, un’amicizia che chiedeva senza mai restituire. Quante volte abbiamo barattato la nostra dignità pur di non restare soli, pur di sentirci accettati.


Eppure arriva quel giorno in cui diciamo basta. Basta alle briciole, basta alle promesse vuote, basta alle persone che sanno solo pretendere. È il giorno in cui scegliamo di alzarci e di camminare con la schiena dritta.


Non fare sconti significa rispettarsi. Significa dire Io valgo, e chi vuole starmi accanto deve riconoscerlo. Significa selezionare con cura ciò che entra nella nostra vita, perché il tempo è prezioso, l’energia lo è ancora di più.


Da quel momento in poi, tutto cambia. Non sei più tu a rincorrere, ma a scegliere. Non più a mendicare attenzioni, ma a dare valore solo a ciò che davvero conta.


E allora, ricordalo tu vali e quando lo capisci davvero, smetti di fare sconti. E ti assicuro la vita, da lì in avanti, prende un sapore completamente nuovo.

martedì 23 settembre 2025

Chi è davvero un bambino



C’è una domanda che, a prima vista, sembra semplice ma che in realtà racchiude grande profondità, chi è un bambino?

La risposta immediata potrebbe essere un bambino è una persona che non ha ancora raggiunto l’età adulta, ma fermarsi a questa definizione sarebbe riduttivo, quasi freddo. Un bambino non è solo un individuo “in crescita” è una persona unica, che attraversa un tempo speciale della vita, fatto di scoperta, di meraviglia e di formazione.

Un bambino è curiosità pura, sa stupirsi davanti a ciò che noi adulti diamo per scontato: un fiore che sboccia, una nuvola che cambia forma, una mano che lo accompagna. È fiducia totale guarda gli adulti come punti di riferimento sicuri, si affida senza riserve, convinto che riceverà protezione e amore. Ed è proprio questa fiducia che ci ricorda la grande responsabilità che abbiamo nei suoi confronti.


Ma un bambino è anche vulnerabilità, non ha gli strumenti per difendersi da solo, non conosce ancora le regole dure del mondo, e per questo necessita della nostra cura, della nostra guida e del nostro rispetto.


Ogni bambino porta con sé diritti fondamentali il diritto al gioco, che non è un lusso ma una parte essenziale della crescita; il diritto all’istruzione, che apre le porte del futuro; il diritto di essere amato, ascoltato e considerato per ciò che è.


Un bambino non è un adulto in miniatura è un essere completo, con emozioni autentiche, con pensieri che meritano attenzione, con una personalità che chiede di sbocciare. Non dobbiamo plasmarlo a nostra immagine, ma accompagnarlo nel suo cammino, perché diventi se stesso.


In ogni bambino c’è una promessa la promessa di un futuro migliore. E il futuro dipenderà proprio da come sapremo rispettare e custodire questa promessa.


Dunque, parlare di bambini non significa parlare solo di età anagrafica, ma significa parlare di vita, di speranza e di responsabilità. Sta a noi adulti riconoscerlo e agire di conseguenza, perché ogni bambino ha diritto non solo a crescere, ma a crescere bene, con dignità, con gioia e con amore.

lunedì 22 settembre 2025

Il prezzo della resistenza


 







Ogni epoca è segnata da ondate di trasformazione alcune si insinuano a poco a poco, altre ribaltano tutto in breve tempo. In questi tempi di mutamento continuo, opporsi al cambiamento non è solo una reazione emotiva, è spesso una strategia che finisce per impoverire le possibilità di vita. Ma dietro a questa opposizione si nasconde qualcosa di più profondo di una semplice preferenza c’è una rete di paure, identità e abitudini che tiene prigionieri.


Resistere non è soltanto rifiutare nuove tecnologie o modelli di lavoro significa restare ancorati a una versione di sé che dà conforto e prevedibilità. Quando il mondo intorno a noi muta, quella vecchia versione perde la sua utilità le pratiche che prima funzionavano diventano inadeguate, le certezze diventano limiti. 


La resistenza nasce dalla naturale propensione del cervello a evitare rischi e preservare lo status quo l’incertezza attiva reazioni di difesa che spingono a cercare sicurezza, anche a prezzo della stagnazione.


Il cambiamento non è solo un fatto esterno è una trasformazione dell’identità. Molte persone si definiscono attraverso ruoli, abitudini e storie personali; rinunciarvi significa rinegoziare chi si è. A questo si aggiungono fattori sociali  norme, aspettative, reti di relazioni che consolidano il comportamento. La combinazione di paura personale e pressione sociale rende il lasciar andare particolarmente arduo.


Chi rifiuta di adattarsi si espone a rischi concreti perdita di opportunità, marginalizzazione professionale, crisi organizzative, ma c’è anche un costo interiore chi si aggrappa a vecchie certezze può sperimentare frustrazione, senso di irrilevanza o stagnazione personale. Al contrario, chi coltiva la capacità di reinventarsi spesso scopre nuovi sensi di efficacia e rinnovata motivazione.


Coltivare l’adattabilità non significa cambiare direzione ogni volta che soffia un vento diverso, ma allenarsi a vivere il cambiamento con maggiore naturalezza. Ci sono diversi modi per farlo nella vita quotidiana.


Il primo è mantenere viva una curiosità disciplinata non accontentarsi di ciò che già si sa, ma creare l’abitudine ad esplorare nuove conoscenze in maniera costante. Non serve imparare tutto, basta aprirsi con regolarità a prospettive diverse, letture nuove, esperienze che allargano lo sguardo.


Accanto alla curiosità, è utile praticare la sperimentazione controllata. Non sempre si tratta di rivoluzionare la propria vita a volte bastano piccoli tentativi, micro-azioni che ci permettono di testare un approccio diverso senza stravolgere tutto, così ci si abitua al movimento, senza sentirlo come una minaccia.


Un altro passo fondamentale è ridefinire la propria storia. Spesso ci raccontiamo in termini rigidi “sono fatto così”, “ho sempre fatto questo”. Ma imparare a descriversi in maniera più fluida, come persone in evoluzione, permette di accogliere nuove competenze e ruoli senza sentirli estranei.


Non meno importante è l’allenamento emotivo all’incertezza. Il cambiamento porta inevitabilmente con sé paure e ansia. Allenarsi a regolare le proprie reazioni con pause riflessive, esercizi di respirazione o semplici momenti di distacco aiuta a non farsi sopraffare dall’ignoto e a scegliere risposte più consapevoli.


Infine, nessun percorso di adattabilità si costruisce in solitudine. Le reti di supporto e di apprendimento sono essenziali circondarsi di persone che stimolano la crescita, che sanno offrire feedback costruttivi e condividere esperienze, rende il cambiamento più naturale e meno isolante.


In questo modo l’adattabilità diventa un allenamento costante, una pratica di vita che non solo prepara alle sfide, ma apre spazi di possibilità sempre nuovi.


Adattarsi non è una resa è un atto creativo e volontario. Non si tratta di cambiare per moda, ma di sviluppare la capacità di trasformare le sfide in possibilità. Invece di vedere il mutamento come minaccia, è possibile imparare a interpretarlo come opportunità di riscrivere chi siamo e cosa possiamo diventare. L’adattabilità diventa allora una pratica quotidiana, una scelta consapevole che avvantaggia sia l’individuo sia la collettività.

domenica 21 settembre 2025

Quando i doveri di un genitore diventano un peso







Essere genitori significa molto più che avere figli significa assumersi responsabilità concrete, quotidiane, che riguardano la salute, l’educazione e il benessere emotivo dei propri figli. Ogni decisione presa e ogni contributo economico versato non è un favore, ma un dovere imprescindibile.

Purtroppo, capita che qualcuno interpreti questi doveri come un peso e li trasformi in strumenti di rifiuto o controllo. Succede, ad esempio, quando un padre  utilizza pretesti per sottrarsi alle proprie responsabilità economiche nei confronti della figlia. 

Liste d’attesa lunghe, procedure burocratiche o piccole difficoltà diventano ragioni per astenersi dal contribuire a cure mediche, visite specialistiche o altre necessità vitali, costringendo l’altro genitore a farsi carico di tutto, spesso sostenendo spese ingenti in strutture private.


Il paradosso emerge con chiarezza quando, nello stesso periodo, lo stesso genitore trova tempo, risorse e voglia di dedicarsi al proprio svago serate con amici, tempo libero con la nuova compagna, viaggi e divertimenti. La disponibilità economica e la capacità di gestire il proprio tempo ci sono, ma la volontà di adempiere ai doveri genitoriali viene meno.

Questo comportamento non è solo ingiusto è una forma sottile di violenza emotiva. I figli percepiscono la disparità, anche se indirettamente, e l’altro genitore, costretto a supplire, vive un peso enorme, spesso con senso di frustrazione e impotenza. 

La genitorialità non dovrebbe mai diventare uno strumento di conflitto o di rivalsa personale; al contrario, è un compito sacro e condiviso, che richiede equilibrio, dedizione e responsabilità costante.

Ogni figlio merita di avere entrambi i genitori presenti, non solo affettivamente, ma anche concretamente. Quando uno dei due si sottrae a queste responsabilità, non solo danneggia l’altro genitore, ma soprattutto la figlia, che rischia di crescere in un contesto dove la giustizia e il rispetto dei propri diritti diventano concetti difficili da comprendere.

Essere genitori significa scegliere, ogni giorno, di non mettere il proprio piacere o il proprio interesse davanti al bisogno dei figli. È un atto di responsabilità che non ammette scuse né pretesti chi diventa genitore deve esserlo fino in fondo, con coerenza, dedizione e rispetto per chi più di ogni altro dipende da noi.

sabato 20 settembre 2025

Il dolore non è solo un dato da misurare






Il dolore non è solo un dato da misurare o una variabile da trattare è l’apertura di una comunicazione incarnata che chiama una risposta relazionale. Quando la medicina riduce la sofferenza a un sintomo misurabile, confrontabile, perde la possibilità non solo di curare meglio, ma soprattutto di riconoscere la persona come individuo. 

L’essere umano non è una somma algebrica di parametri clinici, organici, funzionali, né tanto meno un insieme di dati scomponibili e isolabili. 

Esso è una totalità sorprendentemente irriducibile che comprende corpo, psiche, storia, relazioni, universo ermeneutico e simbolico. 


Quando la medicina “divide” per analizzare, guadagna certamente precisione e rigore tecnico ma rischia di perdere l’orizzonte della complessità umana. Con ciò non voglio dire che la divisione analitica debba passare in secondo ordine o essere svalutata.


 Al contrario, essa rimane uno strumento necessario senza la capacità di distinguere, classificare, misurare, la medicina non sarebbe in grado di offrire diagnosi tecnicamente affidabili né di sviluppare terapie risolutive efficaci. L’analisi è ciò che consente di oggettivare il fenomeno, di renderlo comunicabile, di confrontarlo con protocolli condivisi.

Il problema nasce quando questa prospettiva diventa esclusività nel  senso che l’approccio analitico non si limita più a essere uno strumento tecnico di conoscenza, ma pretende di esaurire l’intera verità della sofferenza del paziente. In questo modo, ciò che è solo un frammento di laboratorio viene dichiaratamente assunto come il tutto di una totalità ben diversa e lontana dalla complessità umana di cui si parlava. 


La prospettiva analitica, dunque, deve restare aperta mai assoluta. Deve riconoscere i suoi limiti e accettare che i dati oggettivi non dicono mai tutto. Solo in questo modo l’analisi ritrova la sua funzione originaria non sostituirsi alla persona, ma mettersi al servizio della sua cura e apertura comunicativa.