venerdì 18 luglio 2025

I manicomi, una ferita aperta nella storia della cura




C’è stato un tempo, non troppo lontano, in cui il disagio non veniva ascoltato, ma rinchiuso. I manicomi istituzioni nate con l’intento di “curare” si sono trasformati col tempo in luoghi di esclusione, silenzio e sopraffazione. Bastava poco per finire lì dentro una condotta ritenuta anomala, una malattia mentale, la disabilità, la povertà, o semplicemente essere di troppo in una famiglia fragile.

Questi luoghi non curavano contenevano. Sedavano. Annullavano l’individuo.

Il corpo diventava il bersaglio di pratiche violente come elettroshock, isolamento, camicie di forza, contenzione fisica, ma forse, la ferita più profonda era l’annientamento dell’identità, della dignità, della speranza.


Nel 1978, grazie alla visione e al coraggio dello psichiatra Franco Basaglia, con la Legge 180, i manicomi vennero chiusi in Italia. Fu un atto rivoluzionario, ma la chiusura dei muri non ha coinciso, purtroppo, con l’immediato crollo della mentalità che li aveva edificati.


Tra le storie che emergono da quell’epoca buia, c’è quella di Angelo, che a soli tre anni venne rinchiuso a Villa Azzurra, un ospedale psichiatrico per minori. Un luogo che, nel nome, sembrava una casa accogliente e luminosa, ma che nella realtà si è rivelato un inferno in miniatura.


Angelo era un bambino piccolo, forse difficile, forse solo fragile, come tanti. Ma invece di ricevere attenzione, cura, comprensione, venne trattato come un problema da contenere. Mi legavano al termosifone. Mi davano la scossa. Cinquantadue volte sono parole sue, parole che fanno tremare.


Non è una metafora, non è una storia inventata. È accaduto, in Italia. Un bambino legato, fisicamente immobilizzato, e sottoposto a elettroshock. A tre anni.


Ogni bambino ha diritto a un abbraccio, a una risposta gentile, a una spiegazione paziente. Angelo ha avuto solo violenza e silenzio. Eppure, ciò che colpisce ancor di più, è che è sopravvissuto. E oggi parla. Ricorda. Testimonia.


La sua storia è raccontata anche nel libro “Il manicomio dei bambini” di Alberto Gaino, una lettura che dovrebbe essere obbligatoria per chiunque si occupi, direttamente o indirettamente, di infanzia, salute mentale o educazione. Perché solo conoscendo questi orrori possiamo riconoscerne le tracce ancora presenti nella nostra società.


Angelo non è solo una vittima. È un simbolo.

Ci ricorda che ogni volta che un bambino non viene ascoltato, compreso, rispettato, si apre una crepa nel tessuto stesso della società. La sua voce ci costringe a guardare in faccia ciò che non vogliamo vedere che anche oggi, in forme nuove e più sottili, esistono ancora termosifoni a cui le fragilità vengono legate.


Sono le diagnosi affrettate. Le sedazioni inutili. Le scuole che escludono invece di includere. Le famiglie lasciate sole. Gli occhi che si girano altrove.


Come sanitari, educatori, cittadini, abbiamo il dovere morale di non dimenticare.


Ogni volta che si racconta la storia di Angelo, costruiamo una memoria che diventa azione, che si oppone al silenzio, che protegge, perché nessun bambino debba mai più subire una “cura” che fa a pezzi l’anima.

Questa storia andrebbe condivisa, letta, raccontata. 

La memoria è la prima forma di giustizia.

E la giustizia, per chi ha sofferto senza voce, è un atto d’amore.

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