
Il cielo si era fatto cupo nel giro di pochi minuti. Il vento soffiava con una forza crescente, portando con sé l’odore acre della pioggia e quella sensazione antica che qualcosa potesse spezzarsi da un momento all’altro. Silvio guardava fuori dalla finestra della cucina, la tazza tra le mani, ma il cuore altrove.
Il pensiero gli arrivò dritto, netto, come un richiamo. Non un albero qualsiasi. Era quello che aveva piantato il giorno in cui Clara era morta.
Una piccola quercia, nel campo accanto casa, lì dove lei amava correre con il vestitino giallo, i piedi nudi e la risata piena di vita. Era stato il suo modo di non lasciarla andare del tutto di darle un corpo nuovo, fatto di rami, linfa e radici.
Aveva scavato la buca da solo, con le mani nella terra ancora fredda, gli occhi gonfi e la voce spenta. L’aveva piantato con la stessa cura con cui l’aveva tenuta tra le braccia l’ultima volta, promettendole in silenzio che l’avrebbe ricordata ogni giorno.
Da allora erano passati tre anni. La quercia era cresciuta piano, come crescono le cose che portano dentro il dolore. Non era ancora forte, ma aveva messo foglie larghe, vive, e rami che parevano allungarsi verso il cielo come dita in cerca di risposta.
Quando il vento si fece più violento, Silvio non ci pensò un istante. Lasciò la tazza sul tavolo, afferrò al volo una giacca sottile e uscì sotto le prime gocce di pioggia.
Correva... Il cuore gli martellava nel petto non per lo sforzo, ma per la paura di arrivare troppo tardi.
Lo vide da lontano. L’alberello era piegato su un lato, come in ginocchio. Le radici, smosse, parevano dita che cercavano di aggrapparsi alla terra per non volare via. Le foglie tremavano, e il fusto si contorceva sotto le raffiche. Sembrava gridare senza voce.
Lui si avvicinò, e senza esitazione lo abbracciò. Avvolse il tronco con entrambe le braccia, lo strinse forte contro il petto. La pioggia cadeva fitta, il vento gli sferzava la faccia, ma lui non si mosse. Restò lì, saldo, come un padre che protegge. I suoi piedi affondavano nel fango, le mani si graffiavano contro la corteccia sottile, ma non importava. Era il suo modo di tenerla al sicuro, ancora una volta.
Il tempo sembrò fermarsi. Non c’erano parole, solo il rumore del temporale e il battito sordo della memoria. In quel momento, lui non stava solo salvando un albero. Stava difendendo la traccia viva dell’amore che non muore, la promessa fatta a una figlia perduta troppo presto.
Quando il vento calò e la pioggia si fece più leggera, Silvio si staccò lentamente. L’albero era ancora in piedi un po’ piegato, certo, ma vivo.
Lo guardò con occhi lucidi ce l’abbiamo fatta, Clara, sussurrò.
Poi, lentamente, tornò verso casa, con il fango fino alle ginocchia e il cuore pieno di qualcosa che assomigliava alla pace.
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