mercoledì 9 luglio 2025

Il rumore della cucina



Avevo otto anni ed era un pomeriggio qualunque, di quelli in cui l’inverno ti costringe in casa e la noia ti spinge a inventarti mondi nel silenzio delle stanze.


In cucina, mia madre trafficava tra pentole e mestoli. Il vapore saliva dai fornelli e appannava i vetri, il cucchiaio di legno batteva ritmicamente contro i bordi della pentola, mentre in radio si sentiva una canzone lontana, quasi sommersa dal profumo del sugo.


Io me ne stavo in un angolo, per terra, seduta con le gambe incrociate e il mento appoggiato sulle ginocchia. 


Avevo costruito una piccola palla con la carta stagnola del cioccolato del giorno prima. Era liscia, lucente, e ci giocavo lanciandola in aria e riprendendola al volo,  una cosa da nulla, ma mi faceva compagnia. Era la mia distrazione, il mio modo per essere lì senza sentirmi sola.


Ad un certo punto, senza avvisaglie, la pallina scivolò dalle mani, colpì il muro e rimbalzò contro una ciotola, facendola cadere. Il rumore secco del vetro contro il pavimento zittì tutto il resto. Mia madre si girò lentamente. Non disse nulla. Posò il mestolo con calma, si asciugò le mani nel grembiule e si avvicinò.


Non ebbi il tempo di pensare, né di parlare. Mi prese per il braccio e mi fece alzare. Mi guardò, seria, come se stessi facendo qualcosa di molto più grave di quel che era. Poi, con uno sguardo freddo e fermo, mi sgridò intimandomi di non giocare più.

Non era il momento.


E senza aggiungere altro, mi arrivò lo schiaffo. Non forte, non rabbioso. Ma pieno. Netto. Il tipo di schiaffo che fa più rumore dentro che fuori.


Non piansi, ma  mi tremava qualcosa che non sapevo nominare. Non fu tanto il dolore fisico, quanto la vergogna. L’umiliazione. E quel pensiero insidioso che si infilò nella testa Forse ho deluso la mamma non è più dalla mia parte.


Raccolsi la pallina e, in silenzio, la buttai nel secchio, poi  tornai a sedermi, non più in terra, ma sulla sedia, dritta come non ero mai stata. Quel giorno imparai a non disturbare. A non attirare l’attenzione. A non chiedere spazio nemmeno nel tempo del gioco.


A casa non se ne parlò più,  da allora, ogni volta che toccavo qualcosa per gioco, mi chiedevo se stavo facendo troppo rumore.


Oggi sono cresciuta e spesso mi trovo a osservare i bambini.

Con il tempo tutto è cambiato e ora, pensando a quel giorno, mi chiedo e se quello schiaffo me lo avesse dato un’altra persona?


Se, con la stessa calma, mi avesse fatto avvicinare, tolto gli occhiali, e mi avesse colpita per una pallina di carta tenuta in mano che avevo quel giorno cosa avrei sentito?


Uno schiaffo, se dato da chi ti ama, brucia più a lungo.

Fa più rumore dentro, la madre è il rifugio, è il posto dove, se sbagli, ti viene spiegato, non  dove vieni punito senza un perché.

 Mi chiedo spesso, meglio o peggio rispetto a ieri?

Meglio, forse, se a contare sono la comprensione, il dialogo, la presenza.

Peggio, forse, se si confonde l’empatia con la debolezza e il limite con l’anarchia.


Ma una cosa è certa non ho mai dimenticato quello schiaffo e neppure quella pallina di carta

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