venerdì 14 novembre 2025

Più sicurezza, meno tasse la richiesta che unisce gli italiani




In un momento storico segnato da incertezze economiche e crescenti tensioni sociali, la richiesta che molti cittadini rivolgono al governo Meloni è chiara più sicurezza e meno tasse. Due parole d’ordine che racchiudono il desiderio di stabilità, fiducia e possibilità di vivere con dignità.

Da un lato, la sicurezza non è solo quella delle strade, ma anche quella del lavoro, della casa, del futuro. Le persone vogliono sentirsi protette non solo dai reati, ma anche da un sistema che troppo spesso sembra lasciarle sole di fronte alle difficoltà.


 Servono controlli più efficaci, una giustizia che funzioni e una presenza più concreta dello Stato nei territori, specialmente nei quartieri più fragili e nelle periferie dimenticate.


Dall’altro lato, la pressione fiscale rimane tra le più alte d’Europa. Famiglie e imprese chiedono un alleggerimento che permetta di respirare e investire nel proprio futuro. Meno tasse significa più possibilità di crescita, più fiducia nei consumi e una maggiore spinta all’economia reale. 


Molti cittadini sentono il peso di uno Stato che chiede molto, ma restituisce poco, e la sensazione di ingiustizia fiscale alimenta sfiducia e rabbia sociale.


A Meloni, dunque, si chiede un impegno concreto tutelare la sicurezza dei cittadini e ridurre la pressione fiscale, restituendo equilibrio a un Paese che lavora, ma fatica a vedere i frutti del proprio impegno. 


Non bastano slogan o promesse; servono politiche coraggiose, trasparenti e durature, che mettano al centro la persona e il suo diritto a vivere senza paura e senza il peso eccessivo delle imposte.


Solo un’Italia più sicura e fiscalmente più leggera potrà tornare a credere davvero nel proprio futuro.

giovedì 13 novembre 2025

Dentro la mente dell’assassino








Quando si parla di omicidi efferati, come il caso di Garlasco, la domanda è sempre la stessa perché? Cosa spinge un essere umano a compiere atti di tale brutalità? Non esiste una risposta unica, ma una rete di fattori psicologici, emotivi e ambientali che, intrecciandosi, generano una violenza capace di superare ogni confine razionale.

La dissociazione è un meccanismo psichico che, in condizioni estreme, può frammentare l’esperienza della persona: ricordi, emozioni e identità si separano, rendendo “altro” ciò che prima era integrato. Quando si combina con traumi infantili, abusi o contesti di forte stress, può diventare il terreno fertile per comportamenti violenti, a volte di estrema crudeltà. 


Comprendere questi moventi non significa giustificare, ma capire come il dolore e la perdita di sé possano trasformarsi in distruzione.


La dissociazione può manifestarsi in forme diverse da episodi temporanei fino al disturbo dissociativo dell’identità. Nei casi gravi, il soggetto può vivere amnesie, sensazioni di distacco dal corpo o dalla realtà, e perdita di empatia. 


Non tutte le persone dissociate diventano violente; tuttavia, quando questa condizione si unisce a impulsi distruttivi o a parti della personalità che agiscono indipendentemente, il rischio aumenta.


Spesso la dissociazione nasce come difesa da traumi profondi. In chi ne soffre, convivono parti della personalità con ricordi e emozioni separati quando quella aggressiva prende il sopravvento, la realtà si deforma e la vittima può diventare il simbolo di un dolore passato. In questi stati, la persona perde il contatto con la realtà la vittima non è più vista come un essere umano, ma come un oggetto. Questo distacco riduce l’empatia e facilita la crudeltà.


Altre volte, la violenza nasce dal bisogno di controllare sé stessi o di integrare parti interiori frammentate. In casi rari, la dissociazione si accompagna a componenti sadiche, dove la sofferenza altrui procura sollievo.


 I fattori di rischio principali sono traumi infantili ripetuti, isolamento sociale, abuso di sostanze, altri disturbi psichiatrici o eventi che riattivano memorie traumatiche.


Dal punto di vista forense, la dissociazione rende complessa la valutazione della responsabilità penale in certi casi può ridurla, ma ogni situazione va analizzata da esperti. È importante ricordare che la maggior parte delle persone con disturbi dissociativi non è pericolosa.


La prevenzione passa dalla cura precoce dei traumi e da terapie mirate, come la terapia focalizzata sul trauma o la terapia integrativa per disturbi dissociativi. Anche negli ambienti giudiziari, percorsi terapeutici e monitoraggi multidisciplinari possono ridurre la recidiva.


Analizzare la mente dissociata non significa assolvere chi commette violenza, ma comprenderne le radici per prevenirla. La violenza non è inevitabile con il giusto intervento, molte persone traumatizzate riescono a trasformare il dolore in consapevolezza. Capire i moventi dissociativi serve per costruire una giustizia capace di distinguere tra punizione e cura, e per impedire che altre vite vengano travolte da un dolore antico e non elaborato.

mercoledì 12 novembre 2025

Il significato del disordine







Essere disordinati non è soltanto una questione di oggetti sparsi, di vestiti abbandonati su una sedia o di fogli ammassati su una scrivania. Il disordine, spesso, racconta qualcosa di più profondo uno stato interiore, un modo di pensare o, a volte, una forma di libertà che non tutti comprendono.

Ricordo ancora la prima volta che mi recai a casa della mia migliore amica. L’avevo sempre immaginata precisa, ordinata, con ogni cosa al suo posto, perché così appariva in ogni gesto, in ogni parola. Quando aprì la porta, invece, rimasi sorpresa c’erano libri accatastati sul tavolo, tazze di caffè mezze vuote qua e là, fogli e colori sparsi come se il tempo si fosse fermato nel mezzo di una creazione. Mi stupii, ma non in senso negativo. Quella confusione aveva qualcosa di vivo, di autentico, di profondamente suo. Era come se il disordine raccontasse la sua anima meglio di qualunque spiegazione.


In quel momento capii che esistono diversi tipi di disordine. C’è quello che nasce dalla distrazione o dal disinteresse, ma c’è anche quello che è il segno di una mente in movimento, di una persona che crea, sogna, e non ha paura di lasciare tracce del proprio passaggio. Il suo disordine non era abbandono, ma espressione un linguaggio invisibile che diceva qui si pensa, qui si vive.


Ci sono persone per cui l’ordine rappresenta sicurezza, controllo, stabilità. Altre, invece, vivono nel disordine senza sentirsi a disagio in quel caos trovano ispirazione, spontaneità e libertà. Il disordine, per alcuni, è una mappa personale che solo loro sanno leggere. Ogni oggetto ha un suo posto nascosto, ogni cosa è lì per un motivo, anche se non segue la logica comune.


A volte, però, il disordine è anche il riflesso di una mente sovraccarica, di pensieri che non trovano spazio o di emozioni non ancora messe in fila. In quei casi, riordinare può diventare un gesto terapeutico rimettere a posto il mondo esterno aiuta a dare forma anche a quello interiore.


Essere disordinati, dunque, non significa necessariamente essere confusi o trascurati. È un modo di esprimersi, un linguaggio silenzioso che rivela come ognuno di noi affronta la vita c’è chi la ordina per controllarla, e chi la lascia un po’ sparsa per poterla respirare meglio. E forse, nel disordine di chi amiamo, si nasconde semplicemente la verità più sincera di ciò che sono.

martedì 11 novembre 2025

Il vero piacere secondo Epicuro: la serenità dell’anima



Viviamo in tempi pieni di stress e incertezze. Tra crisi politiche, cambiamenti climatici, difficoltà economiche e lavorative, molte persone fanno fatica a stare bene. In momenti come questi, è naturale tornare ai principi fondamentali e chiederci cosa ci rende davvero felici? Come possiamo vivere in modo sereno?


Negli ultimi anni, molti filosofi e scrittori hanno ripreso i pensieri del mondo antico per rispondere a queste domande. Si parla spesso di Stoicismo, che è tornato di moda, ma c’è un’altra filosofia che merita attenzione l’Epicureismo.


Oggi, quando si parla di Epicuro, molti pensano a un uomo che amava solo i piaceri materiali: buon cibo, vino e divertimento. Ma questa è una visione sbagliata. Epicuro era sì un filosofo del piacere, ma intendeva qualcosa di molto diverso dal piacere superficiale.


Per Epicuro, il vero piacere non è fatto di eccessi, ma di tranquillità. Il suo obiettivo era raggiungere uno stato chiamato atarassia, cioè una pace interiore profonda, libera da dolori fisici e da turbamenti dell’anima.


Questo significa che per l’epicureo il piacere non è una continua ricerca di emozioni forti, ma piuttosto la scomparsa del dolore e dell’ansia. Anche i piaceri della vita come il buon cibo, l’amore o la musica vanno vissuti con equilibrio, perché troppi eccessi finiscono per creare nuovi dispiaceri.


Prendiamo, ad esempio, il lavoro. Le tensioni con i colleghi, la paura di non essere abbastanza, o la corsa continua verso promozioni e soldi sono spesso causa di ansia.

Epicuro direbbe che è meglio vivere il lavoro come un mezzo per vivere, non come lo scopo della vita. Cercare la serenità significa ridurre i desideri inutili e dedicarsi a ciò che davvero conta la salute, la semplicità, la pace interiore e i legami autentici.


Non vuol dire rinunciare alle ambizioni, ma scegliere obiettivi realistici e sani, che non ci trascinino in una competizione continua. In fondo, il lavoro è solo una parte della nostra esistenza, non la misura della nostra felicità.


Epicuro considerava l’amicizia uno dei beni più preziosi. Secondo lui, gli amici sono indispensabili alla felicità, tanto quanto il cibo o l’acqua.

Con gli amici condividiamo la vita, ci sosteniamo nei momenti difficili e ci ricordiamo insieme delle cose belle. Le relazioni sincere e affettuose, infatti, sono ciò che ci permette di vivere in pace, senza paura e senza solitudine.


In definitiva, l’insegnamento di Epicuro è semplice e attuale . Vivi con poco, ama profondamente, cerca la pace dentro di te.

lunedì 10 novembre 2025

L’amore che sa lasciar andare




Amare un figlio non significa tenerlo stretto, ma accompagnarlo fino al momento in cui sarà pronto ad andare. È un paradosso che ogni genitore impara con il tempo: più ami, più devi imparare a lasciare. Non si tratta di abbandono, ma di fiducia. Fiducia nella vita, fiducia nella forza che abbiamo seminato dentro di lui, fiducia nella sua capacità di camminare con le proprie gambe.

All’inizio, l’amore è protezione: è vegliare sulle notti insonni, asciugare lacrime, curare ferite, costruire intorno un mondo sicuro. È una presenza costante, quasi totale, perché il bambino ha bisogno di sentirsi al centro di quel piccolo universo affettuoso. Poi, piano piano, l’amore cambia forma. Cresce insieme a lui, si fa più silenzioso ma più profondo, e deve imparare a fare un passo indietro. Deve accettare che il figlio esplori, che si metta alla prova, che sbagli.


Lasciar andare è la forma più matura dell’amore, quella che non pretende riconoscenza, che non impone il proprio volere, che non teme di non essere più necessaria. È la prova più difficile per un genitore, perché ogni padre e ogni madre restano, in fondo, un cuore che vorrebbe trattenere, che vorrebbe proteggere ancora, che teme il distacco. Ma se l’amore è vero, non trattiene: accompagna. È un filo invisibile che non lega, ma unisce.


Lasciare andare non significa smettere di esserci. Significa esserci in modo diverso con lo sguardo, con l’ascolto, con la discrezione di chi sa che il proprio compito non è controllare, ma sostenere da lontano. È un gesto di grande rispetto, perché riconosce al figlio il diritto di essere se stesso, anche quando le sue scelte non corrispondono alle nostre aspettative.


Un figlio amato davvero non è quello che vive sotto la nostra ala per sempre, ma quello che, anche da lontano, porta dentro di sé la certezza di essere stato amato nel modo giusto con libertà, con fiducia, con la forza di sapere che può tornare ogni volta che vuole, senza paura di essere giudicato.


E allora sì, tutto si riassume in poche parole i figli vanno amati, soltanto questo. E amare davvero, nel senso più profondo e autentico, significa anche imparare a lasciarli andare, con il cuore pieno di gratitudine per il dono di averli potuti accompagnare fino a quel punto del loro cammino.

domenica 9 novembre 2025

Il gioco degli specchi









Anna lo aveva capito tardi. Aveva impiegato anni a rendersi conto che c’erano persone capaci di distorcere la realtà con una naturalezza disarmante. All’inizio non se n’era accorta, perché chi mente bene sa farlo con un sorriso, e chi ama davvero tende a giustificare tutto.


Lui  Marco era gentile, sempre pronto a spiegare, a mettere le cose a posto. Quando lei si sentiva ferita, lui trovava il modo di farle credere che fosse troppo sensibile. Quando si arrabbiava, lui la convinceva che stava esagerando. E ogni volta che Anna cercava di difendere il proprio punto di vista, finiva per chiedere scusa.


Era un gioco sottile, quello degli specchi. Marco non urlava, non offendeva apertamente, ma manipolava con le parole, piegando la verità fino a farla diventare una trappola. Non è successo così, ti confondi, le diceva. Hai capito male, come sempre. E a forza di sentirsi ripetere quelle frasi, Anna aveva iniziato a dubitare di sé, come se la sua memoria fosse un vetro incrinato.


Un giorno, però, qualcosa si era spezzato. Non dentro di lei, ma fuori. Un’amica, ascoltandola, le aveva detto : “Non sei tu a sbagliare sempre, Anna. Sei solo con la persona sbagliata.” Quelle parole erano state come un colpo d’aria fresca in una stanza chiusa da troppo tempo.


Così Anna aveva iniziato a osservare le cose da lontano, come se si guardasse vivere. Aveva rivisto ogni discussione, ogni colpa che si era attribuita, e aveva capito che non era imperfetta: era stata ingannata. Da quel momento aveva deciso di mettere distanza  non per odio, ma per sopravvivenza.


Capì che chi non riconosce mai i propri errori non vuole crescere, e chi cerca di farti credere che sei tu a sbagliare, in realtà teme la tua lucidità.


Oggi Anna vive in modo diverso. Ha imparato che l’amore non è lotta, né bisogno di avere sempre ragione. È verità, anche quando fa male. E se c’è una cosa che ha imparato davvero, è questa le persone che ti fanno dubitare di te stesso non ti amano, ti usano.

E allora l’unico modo per salvarsi è allontanarsi  con dignità, e senza voltarsi indietro.

sabato 8 novembre 2025

Il vero significato dell’essere famiglia






Essere famiglia non è solo condividere un tetto o un cognome è un tessuto di presenze che si intrecciano nei giorni buoni e in quelli difficili. Quando diciamo che una famiglia “c’è”, si intende molto più di una semplice presenza fisica parliamo di attenzione, di ascolto, di piccoli gesti. È in quei gesti un caffè preparato senza chiedere, una mano sulla spalla nel momento sbagliato, una telefonata imprevista  che si misura la qualità di una presenza.

La gioia in famiglia non è sempre grande festa. Spesso è fatta di frammenti una risata condivisa a tavola, la soddisfazione di vedere un figlio che prova qualcosa per la prima volta, la complicità silenziosa tra due persone che sanno di poter contare l’una sull’altra. Queste piccole gioie costruiscono una memoria comune che resiste al tempo. Coltivare la gioia significa creare momenti anche modesti in cui l’affetto si può manifestare senza condizioni rituali quotidiani, storie raccontate, abbracci veri. La gioia così intrecciata diventa risorsa, non solo piacere effimero.


Ma esserci e gioire non bastano se non si impara anche a rialzarsi insieme. La capacità di ricostruire dopo una caduta è, forse, l’aspetto più decisivo di quella che chiamiamo vita familiare. Le crisi perdita, malattia, incomprensioni, fallimenti sono inevitabili. La risposta familiare può fare la differenza tra sentirsi soli e sentirsi sostenuti. Rialzarsi insieme significa saper convertire il dolore in apertura: riconoscere la sofferenza, parlare senza colpa, chiedere e offrire aiuto concreto. Significa anche avere la pazienza di sbagliare e il coraggio di perdonare.


Una famiglia sana è quindi un ambiente dove si può essere fragili senza perdere dignità. Qui si impara il valore della responsabilità condivisa non si scaricano i problemi su chi sta peggio, ma si costruiscono soluzioni comuni. È un luogo dove le regole esistono non per imporre ma per proteggere il rispetto reciproco; dove i confini salutari permettono l’autonomia individuale senza dissolvere l’appartenenza.


Non vanno sottovalutate l’onestà e la cura nella comunicazione. Dire la verità con gentilezza, ascoltare senza interrompere, dare spazio ai silenzi: sono pratiche che mantengono vivo il rapporto. Anche i conflitti, se gestiti con rispetto, diventano occasioni di crescita insegnano a negoziare, a spiegare i propri bisogni, a ridefinire i patti quando la vita cambia.


Infine, essere famiglia significa trasmettere storie, valori, tradizioni e la capacità di guardare oltre se stessi. È un’eredità che non passa solo per le parole, ma per il modo in cui si vive il quotidiano. I bambini imparano dall’esempio vedono come gli adulti affrontano la perdita, come si festeggia una piccola conquista, come si chiede scusa. Così si costruisce una cultura familiare che può durare generazioni.


Essere famiglia è, in fin dei conti, scegliere ogni giorno di non rinunciare agli altri esserci nei gesti, gioire nelle cose semplici e rialzarsi insieme quando il mondo ci mette alla prova. Questa scelta rende la vita più piena e più umana.

venerdì 7 novembre 2025

Ricominciare sempre con la speranza nel cuore




Quando tutto è crollato, non pensavo che sarei riuscita a ricominciare. C’erano giorni in cui anche alzarsi dal letto sembrava una montagna troppo alta da scalare. Il silenzio di casa pesava più di qualsiasi parola, e dentro di me c’era solo un vuoto che non sapevo come riempire. Eppure, proprio in quel vuoto, qualcosa ha iniziato piano piano a muoversi una piccola scintilla, fragile ma viva, che mi diceva di non arrendermi.


Ricordo bene il primo passo. Non è stato un gesto grande, ma una semplice camminata al mattino, quando l’aria era ancora fresca e la città dormiva. Avevo bisogno di sentire che il mondo esisteva ancora, anche se dentro di me tutto sembrava fermo. E mentre camminavo, il sole che filtrava tra gli alberi mi è sembrato un segno: la vita, in qualche modo, continuava.


Da quel giorno ho imparato che ricominciare non significa dimenticare, ma accettare. Ho iniziato a mettere ordine, un po’ dentro e un po’ fuori un cassetto alla volta, una stanza alla volta, un pensiero alla volta. Ho chiamato un’amica, ho ripreso un vecchio libro, ho pianto e ho riso senza più vergogna. Ogni gesto, anche il più piccolo, era un modo per dire a me stessa che potevo ancora credere nel domani.


La speranza non è arrivata all’improvviso, come una luce che accende tutto. È cresciuta piano, come una pianta che nasce da una crepa nel cemento. Ho capito che la speranza non cancella il dolore, ma gli dà un senso. Ti permette di guardare avanti, di credere che, anche dopo una tempesta, qualcosa di nuovo possa fiorire.


Oggi so che ogni volta che la vita mi mette alla prova, posso ricominciare. Non perché tutto sia tornato come prima, ma perché io non sono più la stessa. In quella parte di me che ha conosciuto la fragilità, ora vive una forza più vera. E nel cuore porto la certezza che, finché avrò speranza, non ci sarà mai una fine definitiva solo un nuovo inizio che mi aspetta, da qualche parte, dietro la curva del tempo.

giovedì 6 novembre 2025

Quando qualcosa non torna



Ci sono momenti in cui non servono parole per capire che qualcosa è cambiato. Il corpo parla, gli sguardi si spengono, le abitudini si trasformano in distanze. Non è sempre facile accettarlo, ma a volte la verità si nasconde proprio nei silenzi, nei piccoli gesti quotidiani che non tornano più. È quello che accadde a Giulia, quando cominciò a sentire che il suo amore stava scivolando via, senza che nessuno dei due avesse ancora trovato il coraggio di dirlo.


Giulia lo sentiva, anche se non sapeva spiegare bene cosa. Non era successo nulla di preciso, ma da qualche settimana la casa sembrava più silenziosa, come se qualcosa di invisibile si fosse messo in mezzo tra lei e Marco. Lui era sempre lo stesso, almeno in apparenza, ma c’era un’ombra nei suoi gesti, una fretta nel parlare, una distanza che non sapeva come colmare.

All’inizio aveva pensato fosse solo stanchezza. Il lavoro, le preoccupazioni, le giornate troppo lunghe, ma  poi quella distanza era diventata più evidente. Marco non la cercava più come prima, sembrava distratto anche quando erano insieme, e quando lei provava a parlarne, lui cambiava argomento o diceva che esagerava.


Pian piano, Giulia aveva cominciato a notare altri dettagli. Era diventato irritabile, quasi infastidito da tutto. Una semplice domanda bastava a farlo sbuffare. Sembrava che qualsiasi cosa dicesse potesse farlo esplodere. Non era più l’uomo calmo e attento di prima, e lei non capiva perché.


Poi c’era il telefono. Lo portava sempre con sé, anche solo per andare in cucina. Lo teneva capovolto sul tavolo, e aveva cambiato la password senza dire nulla. Quando arrivava un messaggio, il suo sguardo si faceva teso, rapido, come se volesse nascondere qualcosa. Giulia aveva cercato di non pensarci, di non farsi travolgere dai sospetti, ma la mente è difficile da ingannare.


Una sera lo aveva visto davanti allo specchio. Si era comprato una camicia nuova, si era fatto la barba con cura, aveva messo un profumo che non usava da anni. Quando lei gli aveva chiesto dove andasse, aveva risposto con naturalezza:” Ho una cena di lavoro”, ma qualcosa nel tono era stonato. Non sapeva se fosse la voce o lo sguardo, ma sentì che quella frase non le apparteneva.


Col passare dei giorni, Marco aveva cominciato a tornare sempre più tardi. Riunioni improvvise, clienti che non potevano aspettare. Giulia rimaneva a tavola da sola, il piatto ormai freddo, la mente piena di domande a cui non aveva il coraggio di dare risposta.


Una sera, mentre lui parlava con tono affettuoso, dicendole che le voleva bene, lei lo guardò negli occhi e capì. Non servivano più parole, né prove. Le sue parole non avevano più lo stesso peso, perché il suo sguardo era altrove, la sua mente era già da un’altra parte.


Non ci fu una scena, né accuse. Solo silenzio. Quello stesso silenzio che da settimane abitava la loro casa.

E in quel silenzio, Giulia comprese che a volte l’amore non finisce di colpo si consuma piano, mentre uno dei due se ne va, e l’altro resta a guardare.


Capì anche che, per quanto doloroso, era arrivato il momento di scegliere se restare ferma in quella bugia o ricominciare da se stessa.

E così fece, perché quando qualcosa non torna, forse non è la testa a sbagliare, ma il cuore a vedere prima di tutto.

mercoledì 5 novembre 2025

Il valore dell’empatia oltre la fede



Essere credenti non è garanzia di bontà, così come non credere non è segno di egoismo o disinteresse. Ciò che determina davvero il contributo di una persona al bene comune non è la fede che professa, ma la qualità del suo cuore, la capacità di sentire l’altro come parte di sé. Una persona non credente, ma profondamente empatica, può costruire più ponti di umanità di chi si dichiara credente ma vive con indifferenza.

L’empatia è la forma più autentica di spiritualità, anche quando non si nomina Dio. È il gesto di chi si ferma davanti al dolore altrui, di chi ascolta, di chi si mette nei panni dell’altro senza giudicare. L’empatia non ha bisogno di un credo per fiorire: nasce dal riconoscere l’umanità condivisa, dal sentire che la felicità dell’altro riguarda anche noi.


Al contrario, la fede vissuta senza apertura, senza compassione, rischia di diventare un insieme di parole vuote. Ci si può dire credenti e allo stesso tempo chiudere il cuore, passare oltre chi soffre, ignorare le ingiustizie. In quel caso, la fede smette di essere luce e diventa solo un’etichetta.


Il bene comune non si costruisce con le dichiarazioni, ma con le azioni. È fatto di mani che si tendono, di tempo donato, di piccoli gesti di cura quotidiana. Una persona empatica, anche senza credere, riconosce la sacralità della vita in ogni forma di sofferenza e di fragilità. Ed è proprio in questo riconoscimento che si manifesta il senso più profondo di ciò che chiamiamo “bene”.


Forse la vera differenza non è tra credenti e non credenti, ma tra chi sente e chi non sente. Tra chi guarda il mondo con occhi attenti e chi lo attraversa distratto. In fondo, il bene non ha bisogno di etichette religiose per esistere: nasce ogni volta che qualcuno sceglie di prendersi cura dell’altro, semplicemente perché lo riconosce come parte della stessa umanità.