
Quando Anna arrivò nel paese, il mare non era un panorama era un lavoro, un rischio, una necessità. Le case bianche si arrampicavano sulla collina per sfuggire agli spruzzi salati; giù, tra il molo e la scogliera, gli uomini parlavano sottovoce per non disturbare il vento. Anna scese dal pullman con una valigia rigida e un foglio arrotolato sotto il braccio il disegno di un palazzo sul mare.
Non aveva studiato architettura, ma sapeva contare le altezze con l’ombra a mezzogiorno e immaginare gli spazi come si fa con una melodia, nota dopo nota. Il palazzo, nei suoi pensieri, non era un capriccio sarebbe stato un rifugio con stanze fresche d’estate, una grande terrazza per i concerti, un portico su archi ampi dove i pescatori avrebbero potuto riparare le reti e i bambini ascoltare storie. Un luogo di riposo e di ritorno.
Aveva messo da parte soldi e aveva scelto quello sperone di roccia, tra capperi e ginestre, dove le onde battevano sempre con lo stesso ritmo.
Firmò l’atto e iniziò a seguire i lavori con entusiasmo. Ogni mattina si presentava al cantiere osservava gli operai, prendeva appunti su un quaderno.
Il paese all’inizio mormorava. Alcuni ridevano, altri la osservavano con rispetto, per quella testardaggine gentile che non chiedeva permesso.
Nessuno sapeva da dove venisse la tenacia di Anna; qualcuno diceva che era rimasta sola troppo presto, che cercava un modo per occupare il silenzio. Solo il mare pareva capire ogni sera, quando il cantiere si svuotava, le onde salivano a lambire la prima gradinata, come a provare l’acustica.
Arrivò l’inverno con il suo vento tagliente. Il palazzo salì fino al secondo livello, la terrazza iniziò a stendere la sua lingua di pietra verso la linea blu. Poi la malattia, sottile e rapida, la raggiunse senza scenate un affanno che le mangiava i passi, una febbre che non voleva lasciarla. Anna smise di salire al cantiere; guardava da lontano, seduta su uno scalino di casa, il profilo del suo sogno che restava fermo come una nave in secca.
Il cantiere si spense. Le impalcature si fecero grigie di sale, gli attrezzi presero ruggine. Nei mesi seguenti si parlò di comprare, di abbattere, di completare con appartamenti da affittare in estate.
Ogni proposta si arenò contro qualcosa di muto e ostinato forse la povertà, forse la coscienza, forse il rispetto per quella donna che aveva preso il mare sul serio. Il palazzo rimase scheletro archi senza muri, scale che salivano verso il cielo, finestre senza vetri a incorniciare il vento. E quello scheletro cominciò a raccontare.
Passarono gli anni. Le stagioni ridipinsero la pietra con le loro mani in primavera la coprirono di ombre di capperi e rondini.
Una ragazza arrivò in paese con una macchina fotografica al collo e un’aria stanca da città lontana. Si chiamava Giulia. Aveva perso un fratello e da allora non sopportava i luoghi finiti, quelli perfetti; preferiva ciò che mostrava le cuciture. Lo scheletro la attrasse come una parola non detta.
Giulia cominciò a salire ogni sera la scalinata che non portava a nessuna porta. Fotografava la luce che passava tra due pilastri a seconda dell’ora, il modo in cui il mare entrava nei vuoti, i gabbiani posati come virgole sulle travi.
Organizzò, con i pochi amici che si era fatta, una serata di proiezioni la chiamarono “La Notte del Ritorno”. Portarono nel palazzo generatori, un lenzuolo teso tra due archi, un proiettore. Non misero sedie.
La gente arrivò all’imbrunire, attirata dal chiacchiericcio. Sul lenzuolo scorsero le fotografie del cantiere, i volti dei muratori, una mano di Anna che toccava la pietra come si tocca una spalla. Poi apparvero parole brani dei quaderni, poesie anonime lasciate sulla bacheca del molo, nomi. Quando lo schermo si spense, nessuno parlò per un po’ si sentiva solo il mare.
Il giorno dopo il sindaco convocò una riunione. In molti proposero di stabilizzare lo scheletro, di renderlo sicuro, di farne un luogo pubblico non un museo, non un locale, non un monumento finto. “Una casa di ritorno,” Gli ingegneri vennero con corde e caschi; misero catene d’acciaio invisibili, consolidarono le basi. Non aggiunsero muri. Lasciarono che il vento potesse passare, che la luce potesse tagliare l’ombra come un coltellino da pane.
Pian piano il palazzo incompiuto trovò una funzione piena la mattina ospitava un piccolo mercato del pesce quando il mare era generoso; al tramonto diventava un teatro senza sipario dove i musicisti provavano in cambio di una cena; nei pomeriggi di scirocco, i ragazzi appendevano amache tra due pilastri e leggevano libri. Nessuno prenotava, nessuno pagava, tutti restituivano.
C’era una regola sola, scritta su una tavola di legno all’ingresso: “Non chiudere”.
Ogni anno, nel giorno in cui Anna era morta, Giulia appendeva, tra un arco e l’altro, fogli bianchi su cui chiunque poteva scrivere o disegnare. Un bambino scrisse: “Qui il mare non fa paura”.
Col tempo arrivarono giornalisti, curiosi, architetti. Alcuni volevano completare il palazzo secondo il progetto originario, ma i quaderni di Anna, riletti ad alta voce in piazza, dicevano chiaramente che il progetto originario era cambiare con la vita. E la vita, a volte, resta incompiuta per rimanere vera.
Forse Anna, che aveva desiderato un palazzo sul mare per chi non sapeva dove andare, avrebbe riconosciuto in quello scheletro di pietra una casa piena: piena di suoni, di pause, di ritorni.
Oggi, quando il sole scende e colpisce di lato la scalinata, il palazzo sembra una pagina su cui la luce scrive. I turisti fanno foto, i bambini corrono, i vecchi contano le barche. Qualcuno dice ancora che è peccato, non averlo finito, ma chi si ferma un attimo capisce che questo racconto non è una linea retta è un respiro. E quel respiro, tra il mare e la pietra, continua a pronunciare il nome di Anna ogni volta che il vento passa e racconta ancora. Sempre.
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