martedì 12 agosto 2025

L’altalena dell’estate


 Ci sono ricordi d’infanzia che restano impressi non solo per la dolcezza di un momento, ma per la lezione che, a modo loro, ci hanno insegnato.A volte arrivano da un abbraccio, altre da un rimprovero… e altre ancora da una caduta. 

L’estate del 1978, con il sole alto e l’odore della ghiaia calda, mi regalò una di quelle lezioni che non si dimenticano. 

Era un pomeriggio luminoso, di quelli che sembrano fatti apposta per stare all’aperto. Davanti a casa, sulla ghiaia chiara, c’era la nostra altalena da giardino asticelle di legno, supporti di ferro, e quell’aria robusta e un po’ arrugginita che avevano gli oggetti fatti per durare.

 A pochi passi, l’albero grande offriva ombra e un leggero fruscio di foglie, il sottofondo ideale per i giochi dei bambini. Per noi, quell’altalena non era un semplice posto dove sedersi era una piccola montagna da scalare. 

Bastava aggrapparsi, trovare il punto giusto per il piede, e in pochi secondi si arrivava in cima, a cavalcioni, con lo sguardo che poteva spaziare su tutto il cortile. Il gioco, in verità, finiva lì. 

Non c’era scivolo, né salti spettacolari… ma l’emozione di essere arrivati bastava. 

La mamma, seduta poco lontano, sorvegliava la scena e, come sempre, la sua voce si faceva sentire nel ripetere di stare attenta, di piantarla, di tornare indietro… ti fai male, ma  noi bambini, si sa, misuriamo i pericoli con il metro dell’entusiasmo. Finché il tono restava calmo, le sue parole erano solo un suono di sottofondo. 

Quel giorno, però, qualcosa cambiò. Forse la mamma si distrasse un attimo, oppure io mi sentii più sicura del solito. Arrivai in cima, mi sistemai per rimanere un po’ più a lungo… e fu allora che successe. 

Un piede scivolò, il corpo perse l’equilibrio, e in un istante mi ritrovai a precipitare dall’altro lato dell’altalena. L’impatto fu secco. La ghiaia graffiò il mio viso, lasciandolo bruciante e segnato di striature rosse. 

Per un attimo, il silenzio poi le lacrime, il richiamo della mamma, le mani calde che mi sollevavano da terra. Non servivano più parole avevo capito benissimo cosa significasse farsi male cadendo da quella altalena con  l’illusione di toccare il cielo con un dito. Il giorno dopo, il babbo decise di conservare il ricordo.

Mi mise in posa, col volto ancora segnato, e scattò una foto. Non per crudeltà, ma per fissare un pezzetto di vita. Oggi, riguardandola, sorrido in quell’immagine c’è tutta l’infanzia  la voglia di provare, la disobbedienza leggera, e il prezzo innocente di una piccola avventura.

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