giovedì 14 agosto 2025

Quando la gioia si spezza per Carlo



Una giornata pensata per ridere, per mangiare gelati e bagnarsi i piedi diventa, in un attimo, una voragine. Il passaggio dalla spensieratezza al panico è così stretto che la mente fatica a starci dentro continua a riavvolgere i minuti, a cercare l’istante esatto in cui tutto ha cambiato direzione. 

Davanti alla morte di un bambino di sei anni non esistono parole giuste; esiste, però, un modo umano di restare. Questo è un piccolo tentativo di farlo, pensando a Carlo. 

Il primo pensiero è la fragilità del tempo. Con i bambini lo impariamo presto bastano pochi secondi perché un gioco diventi rischio, perché la curiosità superi il perimetro della nostra attenzione. 

Non è un’accusa è la condizione reale della vita con i piccoli. È per questo che la ricerca di un colpevole è una scorciatoia crudele. Il dolore ha già il suo peso; aggiungergli l’infamia della colpa serve solo a frantumare chi resta. Meglio cercare significato che colpe. 

 La vicinanza vera non fa rumore porta acqua, chiude appuntamenti, protegge il sonno quando arriva stremato. E accetta il silenzio, senza riempirlo. I bambini che restano fratelli, cugini, compagni di classe meritano chiarezza. 

Con loro servono parole semplici e oneste Carlo è morto. Non tornerà più. Possiamo essere molto tristi e arrabbiati, evitiamo metafore La normalità non cancella; sostiene.

 Una comunità si riconosce da come protegge il dolore. Anche questo è amore trasformare lo sgomento in gesti che restano. La prevenzione non è una bacchetta magica, ma è un atto d’amore. 

Con i bambini piccoli, in acqua vale la regola del “braccio di distanza” se non li puoi toccare, sei troppo lontano. Giubbotti omologati quando serve, attenzione alle correnti e al vento, niente gonfiabili se il mare cambia umore. E la libertà di dire “basta, oggi no” quando la stanchezza annebbia l’attenzione. Non è paura è cura. Dopo, il dolore non si misura in giorni ma in onde. 

Torna agli anniversari, nelle sere d’estate, nei rumori che somigliano a quel giorno. Allora servono approdi un diario, una stanza che accoglie, un gruppo di sostegno, la possibilità di chiedere aiuto professionale senza vergogna. Il lutto di un figlio non passa; si impara, lentamente, a portarlo senza che spezzi ogni respiro. E questo imparare ha bisogno di mani tese, non di giudizi.

Ricordare Carlo non significa inchiodare tutti al momento della tragedia, ma salvare la sua luce dal buio di quell’istante. Ogni gesto che rende altri bambini più al sicuro, ogni scelta che mette al centro l’attenzione, ogni gioco interrotto per prudenza è un modo  piccolo e concreto di continuare la sua storia dentro la nostra. 

Queste cose non dovrebbero mai succedere in nessuna famiglia. È vero ma quando succedono, possiamo decidere chi essere persone che guardano da lontano o persone che si avvicinano, con rispetto, con mani gentili e parole poche. Per Carlo, per chi lo ha amato, e per tutti i bambini a cui dobbiamo un mondo più attento.

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