
Antonio era ricoverato all’Ospedale San Carlo da qualche giorno, in una stanza condivisa. Il suo compagno era Nicola, un uomo di 91 anni, ricoverato dopo essere stato investito da un’auto. Il trauma era stato serio e le sue condizioni, fin da subito, molto critiche. Il personale lo seguiva con attenzione, ma sapevamo tutti che si trattava più di accompagnarlo che di curarlo.
Nicola trascorreva quasi tutto il giorno dormendo. Il suo respiro era profondo, irregolare, e spesso sembrava assente, immerso in un sonno troppo pesante per essere solo riposo. Ogni tanto apriva gli occhi e fissava il soffitto, o un punto indefinito nella stanza. Non parlava molto. I medici dicevano che la lucidità andava e veniva.
Ma di notte, qualcosa cambiava. Sempre verso la stessa ora, la sua voce rompeva il silenzio.
“Dove sono?”
Antonio restava qualche secondo in ascolto, in quel dormiveglia incerto.
“È tutto buio qui… mi sento solo.”
Allora rispondeva piano, senza alzarsi, senza accendere la luce.
“Nicola, siamo in ospedale. Sto qui con te. Puoi dormire tranquillo.”
Di solito bastava. Lui sospirava, si voltava piano, e tornava a dormire. Ma non era raro che, poco dopo, tornasse a chiedere le stesse cose. Sempre le stesse.
“Dove sono?”
“Perché è tutto buio?”
“Mi sento solo.”
Ogni volta gli rispondeva con calma, anche se la stanchezza si faceva sentire. Era come se il buio gli cancellasse i riferimenti, e avesse bisogno di una voce per ritrovare il confine delle cose.
Dopo qualche giorno Antonio, lo trasferirono in un altro reparto. Quando andò via, Nicola dormiva. Non ha più avuto sue notizie.
A volte ci pensa a quelle notti interrotte dalla sua voce fragile alla semplicità della sua richiesta: sapere dove si trovava, e che non era solo.
Si chiede se succederà anche a lui, un giorno. Se al buio sentirà come Nicola il bisogno di chiedere dov’è, e se ci sarà qualcuno a rispondergli. Forse sì. Forse basta davvero poco: una voce, una presenza, un gesto gentile per non sentirsi soli.
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