
Francesco faceva l’oncologo pediatrico da più di quindici anni. Aveva scelto quella strada consapevole che avrebbe camminato sul filo sottile tra la vita e l’addio, ogni giorno.
Aveva studiato, si era formato, aveva partecipato a congressi, discusso protocolli, linee guida, sperimentazioni… Ma nessun libro, nessun manuale, nessuna conferenza l’aveva mai preparato davvero al momento in cui un bambino lo guardava e sapeva tutto. Più di lui.
Con una consapevolezza che spaventava e, al tempo stesso, consolava.
Aveva incontrato centinaia di piccoli pazienti. Alcuni guariti, altri no. Tutti, in un modo o nell’altro, gli avevano insegnato qualcosa. Ma alcuni ti entrano dentro e ci restano per sempre. Claudia era una di loro.
Aveva dieci anni. Un viso minuto, scavato dalla chemio, ma due occhi enormi, chiari, pieni di universo. Parlava poco, osservava molto. Disegnava mondi interi su fogli bianchi: cieli, porte, alberi con i nomi delle persone che amava scritti sui rami.
Quel giorno, la madre era uscita dalla stanza dopo averle sistemato le coperte. Aveva gli occhi lucidi, come ogni giorno. Cercava di essere forte, ma lui sapeva riconoscere le crepe nei genitori. Sapeva quando trattenevano il crollo, quando lo mascheravano dietro un gesto semplice: una carezza ai capelli, un bacio sulla fronte, un “torno subito”.
Mentre la porta si chiudeva piano, Claudia seguì il movimento con lo sguardo. Poi, senza che nessuno le chiedesse nulla, disse:
«Va a piangere. Fa finta di niente, ma io lo so.»
Parlava con chiarezza e pacatezza. Le sue parole non tremavano. Sembrava aver trovato un senso.
Francesco le prese la mano e con dolcezza le chiese:
«Cosa rappresenta la morte per te, tesoro?»
La piccola si voltò verso di lui, serena:
«Io penso che alcune persone vengano al mondo solo per poco. Non per fare grandi cose… ma per insegnarne una. Poi tornano da dove sono venute. Io non ho paura di morire. Non sono nata per questa vita.»
Poi aggiunse:
«È come quando finisce un libro che ami tanto. Non lo puoi tenere aperto per sempre, anche se vorresti. Ma anche chiuso… il libro c’è. Lo puoi tenere con te. E se lo stringi forte, lo senti ancora vivo.»
In quella stanza non c’erano più tubi, flebo, monitor. Solo verità.
Claudia continuò:
«Quando me ne andrò, la mamma sarà molto triste. Ma io sarò il suo libro preferito. Anche se chiuso. Le capiterà di sentirmi, come quando senti una canzone e pensi subito a qualcuno. Sarò così. Sarò il pensiero che la fa sorridere mentre piange.»
Francesco, emozionato, trattenendo a stento le lacrime, le chiese:
«E cos’è la nostalgia per te, tesoro?»
«La nostalgia è l’amore che rimane», rispose con un sorriso lieve.
Claudia morì tre giorni dopo nel silenzio della notte.
Qualche mese più tardi, la madre tornò in reparto. Portava con sé una scatola. Dentro c’era un quaderno con i disegni di sua figlia. In mezzo, uno mai visto prima: una porta aperta su un prato color pastello, un cielo pieno di bolle. Sopra, a mano incerta, la scritta: “Aspetto lì.”
La morte, a volte, insegna che non tutti nascono per restare. Ma tutti nascono per lasciare qualcosa: una traccia, un insegnamento, una luce.
È solo il modo in cui l’amore cambia forma.
Diventa ricordo, presenza invisibile.
E forse, non si muore davvero, finché qualcuno ti tiene nel cuore.
Diventa un libro chiuso che continua a parlarci.
E ci ricorda che nulla che è stato amore… può davvero morire.
Buon giorno Paola tramite Quora ho intercettato il tuo blog e questo racconto.Stupendo racconto e non ho grandi parole da scriverti.In questa storia c’è tristezza ma anche matura consapevolezza.Claudia ha trovato una spiegazione alla sua condizione, sa che la sua vita sarà dentro il cuore e la mente di chi la cercherà ogni giorno.Grazie per la tua condivisione.Ho letto il tuo profilo e ho capito che hai tanta sensibilità, forse anche causata dal trauma del tuo allontanamento dalla tua mamma.Buona vita.Perché la vita è il più meraviglioso dono.
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