mercoledì 16 aprile 2025

Il Richiamo Dolcissimo della Morte



Ci sono esperienze che sfiorano il confine dell’inspiegabile. Esperienze che restano incise nella carne e nella memoria come una fiamma che non si spegne. Una di queste è l’incontro ravvicinato con la morte. Ma non la morte come la si immagina, buia e spaventosa. No. Quella che alcuni hanno conosciuto è una morte sorprendentemente dolce, quasi seducente. E chi riesce a tornare da quel limite, porta con sé un sapere difficile da raccontare, eppure necessario.


Carlo, ha toccato con mano quel confine e che, per un soffio, ha scelto di restare.


 Aveva appena venticinque anni,  quando accadde. Nel cuore della notte, senza alcun preavviso, un infarto violentissimo lo trafisse al petto come una scarica improvvisa. Sentì un boato, un’esplosione sorda nel torace, e poi il mondo cominciò a dissolversi.


Stava morendo.

Intorno a lui non c’era buio, ma luce. Una distesa bianca, immensa, avvolgente. La morte non era fredda né spaventosa, ma un’esperienza di dolcezza sconfinata.


 In quella soglia, lui sentiva un piacere mai provato prima, una beatitudine che superava qualsiasi emozione della vita. Pensò, con lucidità incredibile: “Morire è bellissimo. Così dolce, così perfetto.” E fu tentato di lasciarsi andare. Di non opporsi a quella pace totale.


Ma poi un pensiero si fece largo nel cuore: “Sono troppo giovane per morire.” E in quell’istante, qualcosa dentro di lui si ribellò. Con una forza che non sapeva nemmeno di possedere, lottò contro quella dolcezza e, con un atto di volontà pura, tornò indietro. Tornò a vivere.


Nei mesi successivi, il dolore al petto rimase, ma non cercò aiuto. Sentiva che il suo cuore, paradossalmente, era più forte di prima. Eppure, ogni tanto, la paura gli giocava brutti scherzi. 


Arrivavano le fibrillazioni, brevi turbamenti, non perché il cuore fosse malato, ma perché la mente dubitava. Bastava un pensiero di insicurezza, e il cuore rispondeva con una scossa. Ma col tempo imparò a capire, a conoscersi. E a liberarsi.


La vera guarigione fu quella smettere di preoccuparsi. Smettere di sorvegliare il proprio battito, e lasciarlo vivere. Da quel momento, anche le fibrillazioni sparirono quasi del tutto. E quando tornavano, raramente, Carlo non ci faceva caso.


Aveva imparato che non era il cuore a dover essere sorvegliato, ma il senso della vita a dover essere custodito.


Alla fine, ciò che lo aveva trattenuto in vita non era la paura della morte, ma il desiderio profondo che la vita avesse ancora qualcosa da offrirgli. Una missione da compiere, un cammino da continuare.


Perché solo chi riconosce di essere necessario al mondo può resistere al richiamo dolcissimo della fine.

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