mercoledì 9 aprile 2025

La stanza piena




Sentirsi soli anche in mezzo alle persone è una delle forme più sottili e dolorose di solitudine. Accade quando c’è una distanza emotiva o una mancanza di connessione autentica, anche se fisicamente si è circondati da altri. Non è la quantità di persone intorno a fare la differenza, ma la qualità delle relazioni e il senso di essere visti, compresi, accettati.


Si può parlare con gli altri, sorridere, scherzare, ma se non c’è spazio per essere davvero sé stessi, con le proprie fragilità, emozioni e pensieri più intimi, si resta in superficie. E questo crea un vuoto.


Quando si ha l’impressione di non appartenere, di essere “fuori posto”, anche la compagnia può sembrare estranea. Le persone possono non accorgersene, ma chi vive questa sensazione sente di dover indossare una maschera per adattarsi.


Le ferite interiori non dette, i traumi, le paure, se non trovano ascolto o accoglienza, si isolano nel cuore. E anche in mezzo a una folla, quella parte sofferente resta sola.


Viviamo in una società che spesso premia l’apparenza, l’efficienza, l’essere sempre “a posto”. Questo può rendere difficile aprirsi davvero, mostrare vulnerabilità, e ricevere empatia autentica.


A volte, ci si sente soli con gli altri perché si è soli con sé stessi. Quando c’è un vuoto dentro che non si riesce a colmare, anche la compagnia altrui non basta. È una solitudine esistenziale, che richiede un ritorno a sé, un ascolto più profondo, come è stato per la vita di Gianna con una carriera brillante a scuola da docente, un giorno nell’androne dell’edifico, mentre aspettava che i suoi alunni entrassero,  circondata da voci, risate, eppure sentiva il cuore freddo, come se fosse chiusa in una campana di vetro. Tutti sembravano conoscerla, ma nessuno la vedeva davvero.


Ogni tanto qualcuno la chiamava per nome, le chiedeva come stava, lei sorrideva. “Tutto bene”, rispondeva. Una risposta automatica, educata, come un riflesso appreso. Ma dentro non era tutto bene. C’era un senso di estraneità che non riusciva a spiegare. Come se fosse un’ospite nella sua stessa vita.


Si guardava attorno, tutti erano presi dalle loro conversazioni, dalle loro vite, colleghi, collaboratori. Si sentiva come una comparsa in un film di altri. Nessuno sembrava accorgersi che il suo sorriso era solo un gesto, non una verità. Che i suoi occhi cercavano qualcosa qualcuno  che sapesse guardare un po’ più a fondo.


A un certo punto entrò in aula si alzò, si diresse verso la grande lavagna nera, aveva in mano il gessetto bianco  e si appoggiò al essa. Gli alunni aspettavano in silenzio, che scrivesse qualcosa. Respirò. Lì,  si accorse di quanto fosse stanca. Non del corpo, ma dell’anima. Stanca di non poter dire: “Mi sento sola.”


Poi sentì una voce alle sue spalle.


“Anche tu?”

Era Antonio, un collega entrato a chiederle il libro di storia che aveva dimenticato per la fretta a casa. Aveva lo stesso sguardo. Non le chiese nulla del perché fosse persa nel suo sguardo. Non cercò di sprecare parole. Si limitò a starle accanto, in silenzio. E in quel momento, Gianna si sentì meno sola. Perché qualcuno, finalmente, era rimasto con lei nel silenzio, senza giudicare, senza scappare.


A volte, bastano pochi secondi di verità condivisa per rompere la campana di vetro.

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