
Quando un genitore soffre sia per un dolore evidente come una malattia, una perdita, una depressione, o per qualcosa di più sottile come frustrazione, insoddisfazione o stress cronico il figlio spesso sente tutto, anche se nessuno glielo comunica.
I bambini, più nello specifico quelli piccoli, sono profondamente sensibili all’atmosfera emotiva della casa. Non hanno ancora filtri o strumenti razionali per comprendere ciò che accade, ma captano gli stati d’animo con una sorta di “radar affettivo”. Così, quando vedono un genitore spento, teso o sofferente, si fanno inconsciamente carico di quella sofferenza. La interiorizzano, talvolta se ne sentono responsabili, e in certi casi sviluppano comportamenti per “alleggerire” il genitore: diventano bambini troppo bravi, si mettono da parte, cercano di consolarlo, o al contrario somatizzano quel dolore attraverso ansia, disturbi del sonno o altri disagi.
È come se l’anima del bambino dicesse: “Se tu stai male, non posso stare bene nemmeno io. E forse, se soffro con te, ti aiuto a non essere solo.”
Questa dinamica può lasciare ferite profonde se non viene riconosciuta, perché il bambino impara a disconnettersi dai propri bisogni pur di non “pesare”. Crescendo, potrebbe diventare un adulto iper-responsabile, empatico al punto da trascurarsi, o con difficoltà a riconoscere ciò che desidera veramente.
Guarire da questo tipo di ferita quella del “peso emotivo assorbito” è possibile, ma richiede tempo, consapevolezza e spesso anche delicatezza. Non si tratta di colpe, ma di meccanismi profondamente umani.
Comprendere che quel dolore che ci portiamo dietro non è (o non era) nostro. Che quel senso di responsabilità, quel bisogno di “salvare” gli altri, quella tendenza a ignorare le proprie emozioni, hanno radici in un tempo in cui si voleva solo sopravvivere emotivamente.
Non bisogna vergognarsi di aver assorbito il dolore di un genitore. Anzi: è stato un atto d’amore. Spesso il bambino dentro di noi ha fatto il meglio che poteva con gli strumenti che aveva. Guardare quella parte con tenerezza è già guarigione.
Capire che “sentire il dolore dell’altro” non significa farsene carico. L’amore non ha bisogno di sacrificio per esistere. Possiamo amare un genitore senza dover vivere al posto suo. Possiamo restituire con il cuore, simbolicamente ciò che non ci appartiene.
Guarire è anche imparare ad ascoltarsi, a dare valore ai propri bisogni, a sentire di avere il diritto di stare bene. È un lento ritorno a casa: dentro di sé.
E a volte, se si ha la fortuna o il coraggio, è anche possibile aprire un dialogo con quel genitore. Dire, magari dopo anni, qualcosa come:
“Ho sentito tanto il tuo dolore. Ma ora scelgo di non portarlo più dentro di me. Ti voglio bene, ma io voglio essere libero/a.”
Non sempre è possibile farlo con la persona reale. Ma lo si può fare dentro di sé. E cambia tutto.
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