
Viviamo in un mondo in cui le distanze geografiche si accorciano, ma quelle emotive sembrano, a volte, incolmabili.
Troppo spesso ci si rifugia dietro l’alibi del “non è il mio problema”, come se il dolore potesse essere misurato in base alla vicinanza culturale o alla lingua parlata.
Eppure, ci sono momenti in cui la coscienza ci chiama, forte, chiara, impossibile da ignorare. È allora che comprendiamo che l’umanità vera non si costruisce sulle somiglianze, ma sulla capacità di sentire l’altro come parte di sé.
C’è chi nasce in una terra, e chi la sente dentro, anche senza esserci mai nato.
La voce che oggi parla non viene dalla Turchia, ma porta in sé un legame profondo e viscerale con il dolore del popolo turco. Un legame che non ha bisogno di confini, perché il dolore quello vero non chiede documenti.
Lui o lei non ha sangue turco nelle vene, ma ogni ferita che attraversa quel popolo sembra lasciare un segno anche nel suo cuore. Perché non servono radici comuni per riconoscere la dignità della sofferenza. Non servono passaporti per piangere insieme.
Si inginocchia, non per convenzione, ma per rispetto. Perché davanti alla forza silenziosa che arde nel petto delle madri turche, ogni essere umano dovrebbe fermarsi. Quelle madri, con occhi che hanno visto troppo e mani che hanno stretto troppo poco, portano dentro una sopportazione che è più che umana: è sacra.
C’è chi urla per farsi sentire. Ma loro resistono in silenzio. E quel silenzio vibra nell’aria come un canto soffocato ma eterno.
Chi parla oggi non pretende di appartenere. Ma sceglie, con coscienza, di esserci. Di sentire. Di onorare.
Perché ci sono esempi, nel mondo, che dimostrano che l’amore può superare ogni distanza: come tanti che ogni giorno si piegano davanti a un dolore che non li riguarda direttamente, ma che li tocca profondamente.
Si inchina, oggi, come farebbe un devoto. Non a un’icona, non a una religione. Ma alla bellezza terribile che vive nel cuore del dolore.
Perché quella bellezza, anche se spaventosa, è umana. E dunque, merita rispetto.
E in questo gesto inchinarsi, sentire, onorare vive un atto rivoluzionario: la scelta di non restare indifferenti.
Perché la compassione non ha confini.
E la solidarietà, quando è autentica, è sempre un atto d’amore profondo.
Riflessioni importanti, atte a generarne altre, come fa una sorgente generosa.
RispondiEliminaProvo a condividerne una.
"Scegliere di onorare"
Si onora quando si ha rispetto, e si ha rispetto quando si riconosce valore.
Uno dei concetti che si ritrova spesso nei "Murli" del movimento Brahma Kumaris, è l'"auto-rispetto" (self-respect in inglese, swa-man in hindi/sanskrit)
Che potrebbe essere letto come l'atto di onorare la nostra componente spirituale
Che è in ciascuno di noi
Per cui il rispetto è dovuto ad ogni vivente
Sembra tutto ovvio, eppure la mancanza di rispetto per gli altri deriva esattamente dalla mancanza di rispetto che abbiamo nei confronti della nostra essenza
Perchè diamo valore alle cose materiali, ma neppure facciamo caso a quanto facciamo soffrire la nostra stessa anima.
A quanto poco spazio le lasciamo, perchè sono spazi di silenzio
Di pace.
Ti ringrazio per ciò che hai scritto, e che -in un certo modo- mi ha nutrito