
Ci sono esperienze che non hanno bisogno di clamore per essere grandi. Storie silenziose, che si consumano nei corridoi di un ospedale, nei piccoli gesti quotidiani, nelle battaglie che sembrano invisibili ma che cambiano il mondo di chi le affronta come è stato per Marco, del suo cammino e di un sole che sembrava troppo lontano.
Ogni giorno, all’alba, un corridoio si svegliava con il rumore familiare delle ruote di un carrello, ma quel giorno fu diverso.
C’erano passi, piccoli incerti e lui, Marco il bambino di una mia cara amica di appena 8 anni, maglietta arancione, scarpe troppo grandi e una flebo. Aveva un sogno semplice, arrivare alla finestra in fondo al corridoio.
La chiamava “il sole lontano”.
Non voleva vederlo per guarire, ma per ricordarsi com’era la luce quando il mondo era solo gioco e merenda.
Spingeva con forza il suo carrello, quello che la psicologa chiamava “l’albero della vita”. Ogni passo era una sfida. Ogni metro, una conquista.
Arrivò alla finestra, si aggrappò al davanzale e sorrise.
Era il suo modo per dire Io ci sono.
Qualche tempo dopo, una campanella suonò.
Quella campanella, che prima faceva paura, ora era libertà.
“Adesso il mio albero lo pianto in giardino,” disse.
Oggi Marco corre felice,si sbuccia le ginocchia, perde tempo dietro alle nuvole, ma ogni anno, torna lì per i controlli.
Lascia un disegno alla finestra un sole con una frase scritta a matita
“Per chi cammina ancora.”
Questa è quella forza silenziosa che ci abita, anche quando crediamo di non averne più. È il ricordo che, anche nei giorni più duri, esiste sempre una finestra verso la luce e che ognuno di noi, con i propri passi, può piantare un albero e continuare a camminare perché c’è sempre qualcuno che guarda quel sole lontano e sogna ancora.
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